di Antonio Preiti
“Sei un populista”, dice il primo e sistema la faccenda. Poi si accorge – il linguaggio tradisce – che questa definizione forse non basta, e l’accompagna a qualcos’altro: razzista, estremista, “di destra”. Ne viene fuori un bel “pot-pourri” di termini, qualcosa di indistinto che riporta sempre il discorso al passato (il fascismo ecc.) e sfugge al presente.
Dobbiamo, invece, capire cos’è la novità del populismo lasciando le definizioni “rassicuranti” che ci allontanano dal cuore del problema, cioè dalle sue novità. Chi trova le novità, trova anche gli strumenti. Senza capire il fenomeno, nessuna strategia è efficace.
Il popolo, un’entità omogenea con un collante morale
Il punto chiave del populismo, della sua ideologia, è la concezione del popolo come entità omogenea tenuta insieme da un collante morale. Nella storia abbiamo avuto vari movimenti populisti con diverse connotazioni, ma la predominanza della componente morale (basti pensare – il linguaggio tradisce ancora – che la parola oggi più di moda , non solo in politica, è “vergogna”, termine morale non politico) fa del populismo attuale qualcosa di nuovo.
Il fatto poi che i social media siano lo strumento ideale per esprimere “vergogna” è insieme frutto e causa della primazia della componente morale nel populismo di oggi.
La morale non ha niente da dire sulle classi sociali, sulle politiche di settore (cosa fare nella scuola, nel welfare; infatti le proposte cambiano ogni giorno), sulle ideologie politiche (anche se c’è un’avversione alla liberal-democrazia che vedremo). Sostenere un mondo morale però non significa necessariamente avere personalmente un comportamento etico (alla maniera di Gandhi: “Sii tu il cambiamento che vuoi che ci sia nel mondo”), o comunque codificato, significa piuttosto aderire al “senso comune”, a un pensiero popolarmente condiviso.
Il senso comune si presenta come impolitico già di suo, perché parte dal presupposto che esista una soluzione che sta bene per tutti (“one fits all”) che però l’élite, per qualche ragione non ben spiegata, — anzi spiegata con il fatto che contrasterebbe i loro interessi di ceto, — non vuole realizzare.
È anti-intellettuale per definizione perché ipotizza che la soluzione sia chiara, perché è quella che viene della strada, che vedono tutti. Non c’è bisogno di esperti che studino il problema, non c’è bisogno di valutare opzioni differenti: tutto è chiaro, se le cose si guardano dalla strada, dal basso.
Nel ruolo dei social, la novità del populismo di oggi
Su cosa è poggiata questa visione morale? Nell’ideologia populista il popolo è morale di per sé perché è fatto da gente che pensa solo a lavorare, ai problemi di ogni giorno; da gente che non ha fronzoli per la testa; da gente che deve “crescere la famiglia”, che bada alle cose essenziali, che sa intuitivamente qual è il bene e il male.
È la gente “pura”. (Non ha caso la piattaforma dei Cinque stelle si chiama Rousseau, il filosofo del “mito del buon selvaggio”, insomma del popolo schietto, integro, genuino che viene “sporcato” dal progresso, nel nostro caso dalle ideologie liberali).
Si può dire che questo sia uno stereotipo; ma in politica vincono le semplificazioni stereotipate, non le disquisizioni in punta di penna. Si potrebbe dire che questa idea del popolo puro c’è sempre stata, e non bisogna neppure scomodare la letteratura russa per ritrovarla, anche secoli fa. Vero.
Anche in questo caso però cerchiamo la differenza. Tolstoj non aveva un account su Facebook, e perciò la sua ideologia era condivisa tra i letterati; non era l’ideologia del popolo su sé stesso; non era il popolo che si manifestava al mondo, mentre i social media hanno consentito che si affermasse l’ideologia della “purezza” del popolo nella consapevolezza del popolo stesso, come propria ideologia costitutiva.
La politica banale di leader eccezionali
Ovviamente contestare a chi usa la purezza del popolo come una clava contro le élites che quegli stessi comportamenti, imputati alle élites, siano del tutto condivisi anche in basso e in tutta la società, non serve a nulla. Perché quello è l’asintoto del populismo, l’affermazione di cui si ha più certezza, e non ha bisogno di dimostrazioni.
Accanto e intorno ai social media che hanno creato questa “consapevolezza” e ostentazione della purezza, c’è anche l’esercizio di leadership che ha ampliato, organizzato, diffuso quella ideologia e su cui ha creato il suo consenso politico.
È tanto importante il ruolo dei leader nel populismo che Paul Taggart, già nel 2000, nel suo “Populism” è arrivato a dire che il populismo è la politica banale di leader eccezionali (“Politics for ordinary people by extraordinary leaders“).
I leader populisti sono riconosciuti non perché appartengano al “popolo”, operazione impossibile, ad esempio, per Trump o per Grillo, ma perché mantengono una comunanza (o vicinanza) concettuale di linguaggio e di atteggiamento rispetto al popolo. E il loro centro è proprio una visione “morale” della società e della politica.
In questo senso non sono né destra, né sinistra: il bene e il male sono più potenti della divisione politica.
L’avversione alla democrazia liberale…
Non sono di destra o di sinistra, ma sicuramente mettono in discussione i fondamenti della democrazia liberale, così come la conosciamo. Il cuore della nostra democrazia è la libera scelta delle persone, il libero formarsi, contrapporsi e confliggere di interessi diversi, la scelta tra opzioni opposte su come governare. E questo vale per i singoli cittadini come per i loro rappresentanti parlamentari.
Ad esempio, l’idea dei Cinque stelle che debba esserci il vincolo di mandato (cioè che tutti i parlamentari siano obbligati a votare secondo le indicazioni del partito) è totalmente opposta alla democrazia liberale per la quale piuttosto ogni parlamentare deve rispondere prima che al suo partito, alla sua coscienza e alle sue autentiche convinzioni personali, e semmai al territorio che li ha eletti.
Addirittura nella Costituzione americana è scritto che è un diritto inalienabile il perseguimento della felicità da parte di ogni americano, in carne e ossa, non genericamente in quanto “popolo”. Il popolo in questo caso è la somma della realizzazione dei sogni di ciascuno. E ciascuno ha il suo.
… è negazione della specificità individuale
Non esiste perciò un populismo di destra e un populismo di sinistra, ma esiste un’ideologia populista che attraversa ogni aspetto della politica tradizionale (per cui può occupare ogni spazio politico), a seconda degli argomenti a cui si applica e che appartengono talvolta alla tradizione della destra e talaltra della sinistra. Ma non sono la versione aggiornata della destra e della sinistra che conosciamo, ma applicazioni diversificate della stessa ideologia.
È così che Trump, Putin, Orban o Erdogan pur diversissimi per personalità, storia e biografie, appartengono allo stesso universo populista. Quello che li unisce è l’avversione alla democrazia liberale e soprattutto alla filosofia e ai valori che la ispirano.
Questo è il discrimine attuale della politica e dappertutto. E dire “sei un populista”, avrà allora un significato molto chiaro, decisamente meno attraente, perché sarà vicino al “popolo”, ma lontano dalla vita e dai sogni di ciascuno, nella loro unica e irripetibile esistenza. Come questa idea possa riconnettere la politica liberal-democratica al popolo, senza le virgolette, è poi un altro problema.
Economista, docente all’Università di Firenze. È cresciuto al Censis, ha insegnato alla Luiss Management, Università di Bolzano, ha diretto l’Agenzia del turismo di Firenze, ha lavorato per Banca Imi e altre imprese. Ha ricoperto la carica di Consigliere d’Amministrazione di Enit e Vice Presidente di ETC (European Travel Commission). Collaboratore del Corriere della Sera. Svolge professionalmente studi e ricerche per Sociometrica, di cui è Direttore. Twitter @apreiti web www.antoniopreiti.it