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L’identità del Pd? Perno del centrosinistra, in chiave di governo

Redazione domenica 30 Ottobre 2022
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Intervista a Stefano Ceccanti a cura di Gabriele Cela, Quotidiano di Puglia e Basilicata

 

Elezioni concluse, vittoria schiacciante del centrodestra, che ha raccolto 237 seggi alla Camera (su 400) e 115 al Senato (su 200), insediato il nuovo governo a guida Giorgia Meloni, prima donna Presidente del Consiglio nella storia della Repubblica. Finalmente ci sarà la sua foto nella cornice rimasta vuota per anni nei corridoi della Camera dei Deputati, insieme alla prima donna ministra, alla prima donna Presidente della Corte Costituzionale, alla prima donna Presidente della Camera e del Senato.

Una grande soddisfazione personale, una grande impresa politica, nel conciliare gli opposti interessi di Salvini e Berlusconi, e, ancor prima di iniziare il suo mandato, un bel filo da torcere, prima sull’elezione del Presidente del Senato, poi sulle dichiarazioni rilasciate da entrambi e la richiesta di un maggior numero di ministeri, che hanno creato un certo imbarazzo nel centrodestra.

Noi elettori, giudicheremo il governo sui fatti, nel frattempo l’opposizione, sia pur frammentata, si organizza, in particolare il Partito Democratico, che annuncia il Congresso Nazionale.

Qui di seguito un’intervista al professore Stefano Ceccanti, già Parlamentare della Repubblica, costituzionalista di fama nazionale ed esperto di leggi elettorali.

Nato a Pisa il 27 Gennaio 1961, negli anni universitari è stato Segretario, Vicepresidente e Presidente Nazionale della Federazione Universitaria Cattolica Italiana fino al 1987.

Dal 2003 è professore ordinario di diritto pubblico comparato presso la facoltà di Scienze Politiche dell’università di Roma Sapienza.

E’ stato Senatore della Repubblica nella XVI Legislatura, dal 29 Aprile del 2008 al 14 Marzo 2013, Deputato della Repubblica nella XVIII Legislatura, dal 23 Marzo 2018 al 13 Ottobre 2022.

Collabora con diversi quotidiani nazionali ed è membro dell’associazione Libertà Eguale.

Ha curato il libro “La forza mite del riformismo. Riflessioni di un cattolico liberale sulla crisi di fine secolo” su Giorgio Armillei pubblicato da “Il Mulino” e disponibile in tutte le librerie.

Professore, Lei è stato parlamentare, è tuttora un uomo politico di fama nazionale, è felice di essere tornato tra i banchi della Sapienza?

Si, a dir la verità non è che cambi molto, nel senso che chi insegna diritto parlamentare o diritto costituzionale, quando è in Parlamento applica le cose che insegna e quando insegna racconta anche le cose che ha applicato quando era parlamentare.

Quindi alla fine non esiste questa grandissima differenza, è la stessa realtà vista da due angolature diverse.

Il vantaggio fondamentale, del mandato parlamentare, è di poterlo fare sapendo di avere un lavoro, un lavoro molto bello e quindi di poterci tornare sempre, in qualsiasi momento. Non si vive quindi una particolare angoscia anche quando ci sono scioglimenti anticipati delle Camere.

Quindi possiamo dire, dai banchi del Parlamento ai banchi universitari, senza troppi rimpianti. In collaborazione con il Dipartimento di Scienze Politiche, Sociologia e Comunicazione stiamo conducendo una ricerca in merito alla comunicazione durante la campagna elettorale. Secondo Lei, è possibile affermare che il risultato dell’ultima tornata elettorale abbia portato all’affermazione di un nuovo partito, il partito degli astenuti, con una percentuale superiore a quella di tutti i partiti candidati? Lei ritiene che l’astensionismo abbia inciso sulla vittoria della coalizione di centrodestra?

Premesso che alcuni di questi dati ancora non li conosciamo con estrema precisione, il gruppo Nazionale di Ricerca dei Politologi (ITANES), che in genere a qualche mese di distanza fa uno screening molto preciso, sta ancora ricostruendo le dinamiche, quindi per risposte finali, attendiamo che loro si esprimano.

Io posso solo riportare alcune mie osservazioni. La partecipazione elettorale intorno al 65% è sempre abbastanza alta, ed è comunque la più alta di tutte le elezioni che noi svolgiamo, perché gli elettori individuano nelle elezioni politiche le elezioni serie A. Tutte le altre elezioni, dalle europee, alle regionali e comunali, ormai aleggiano sul 50% di partecipazione.

Perché noi l’abbiamo vissuta come bassa? Non solo perché è calata di circa una decina di punti, ma perchè? Qual è la causa di questa caduta? È da ricercare nella considerazione che ci sono due variabili che spingono l’elettore alle urne: la prima è l’importanza delle elezioni, e qui c’era, la seconda è il carattere incerto del risultato, gli elettori si mobilitano molto di più se il risultato è incerto.

Lo vediamo anche in altri paesi, conta poco il sistema elettorale, conta invece il grado d’incertezza, se io sono convinto che il mio voto possa contribuire a cambiare l’esito allora sono più motivato ad andare a votare.

In questo caso, obiettivamente, siccome da una parte c’era una coalizione molto forte e dall’altra tre pezzi, nessuno dei quali dava l’impressione di essere in gara – questo è il dato politico vero – probabilmente c’è stata una smobilitazione dell’elettorato. E probabilmente la smobilitazione dell’elettorato è stata maggiore in quei tre pezzi dell’opposizione, cioè tra i potenziali elettori del centrosinistra, cinquestelle e forse anche un po’ del centro.

In ogni caso il 36,09% di astenuti non avrebbe potuto ribaltare il risultato elettorale?

Ribaltato obiettivamente no.

Avrebbe potuto accorciare le distanze, ma in questo caso specifico non avrebbe ribaltato il risultato.

C’è un altro fenomeno che dobbiamo tener presente, ovvero che una parte dell’astensionismo è  necessitato, perché noi abbiamo regole un po’ vecchie legate al luogo in cui si vota.

In molti paesi si può votare alcuni giorni prima, online o comunque in uffici pubblici, ci si preoccupa di favorire il voto anche se gli elettori, nel giorno stabilito, fisicamente non possono andare al seggio, perché la vita moderna è una vita dinamica.

Tempo fa l’allora ministro D’Incà ha promosso un gruppo di lavoro coordinato dall’ex ministro Bassanini, che ha prodotto alcune proposte di rimedio, note come “Voto dove Vivo”, la proposta parlamentare della deputata Madia, che consentirebbe di evitare l’astensionismo involontario degli elettori, che è una parte significativa dell’astensionismo e lo sarà sempre più.

In ogni caso il tema dell’astensionismo è stato analizzato dal Parlamento durante questa ultima legislatura.

Si. C’era questo progetto Madia, insieme ad altri progetti. Purtroppo noi abbiamo una macchina burocratica e amministrativa al Ministero degli Interni che tendenzialmente, se si propone il progetto di Votare online o dove si vive, si spaventa e dice subito di no. L’unico spiraglio di apertura che ci è stato concesso ha riguardato la raccolta firme sui referendum d’iniziativa popolare, perché lì si è programmata una piattaforma per la firma elettronica, anche in seguito ad alcune spinte, tra cui quella del deputato di +Europa, Riccardo Magi e dell’allora Ministro Colao.

D’altra parte noi ormai facciamo tutto con la firma elettronica, compresi gli esami all’università, sarebbe stato folle non consentire questo, ma ci sono anche proposte per consentire con questa modalità anche la presentazione delle liste alle elezioni amministrative. È tutto uno sforzo di modernizzazione, da fare senza paura. Poi se dovessero presentarsi dei problemi, li affronteremo.

Voto dove Vivo è la mozione che interessa prettamente gli studenti fuorisede?

Prevalentemente chi lavora e chi studia fuorisede, il target preciso è questo.

Il centrodestra, in caso di vittoria, ha promesso una serie di riforme, anche costituzionali.

Avendo il sostegno di poco meno dei 2/3 in Parlamento, è possibile che venga approvata la riforma sul presidenzialismo in Italia? La Costituzione è perfettamente bilanciata da una serie di pesi e contrappesi a tutela delle libertà democratiche, delle minoranze, di ogni ente territoriale e di ogni singolo cittadino, quali sarebbero, secondo Lei, i pro e i contro dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica?

Io penso che dovremmo tutti affrontare questo tema in modo pragmatico, nel senso che, nel testo costituzionale c’è una debolezza del potere esecutivo, voluta appositamente per la situazione storica del momento: la guerra fredda. Dove la vediamo, per esempio, questa debolezza?

Non è contemplato il potere di proporre la revoca di un ministro da parte del Presidente del Consiglio, oppure, nel testo costituzionale, non c’è la possibilità di mettere la fiducia su un testo, che invece c’è nei regolamenti parlamentari. In altri paesi, se il governo viene sfiduciato, subito si possono proporre elezioni anticipate, da noi non c’è la stessa possibilità, in questi termini.

Insomma c’è un problema di debolezza dell’esecutivo, che è oggettiva e che si può risolvere in modi diversi.

Nell’Italia del 2022 abbiamo avuto una coalizione che ha vinto, abbiamo Giorgia Meloni che è stata legittimata direttamente dagli elettori, una legittimazione di fatto creata dalle elezioni.

Se noi abbiamo avuto questo, tanto varrebbe perfezionare questo sistema elettorale. C’è un Governo che vince le elezioni, si insedia, ma poi non è protetto durante il mandato da disincentivi costituzionali.

Sappiamo, per esempio, che sui Comuni e sulle Regioni quello che dà forza non è solo l’elezione diretta del Sindaco, ma anche la certezza di tornare al voto in caso di sfiducia. Quel sistema non si può trasportare a livello nazionale, perché troppo rigido.

Però, secondo me, ci si dovrebbe concentrare su questo rapporto tra corpo elettorale, Parlamento e Presidente del Consiglio, lasciando il Presidente della Repubblica super partes.

Perché, nel momento in cui siamo riusciti a legittimare direttamente un Primo Ministro, dobbiamo legittimare anche un Presidente della Repubblica?

Mi sembra che le riforme dovrebbero assecondare quello che già accade di fatto, la richiesta di eleggere direttamente il Presidente della Repubblica era figlia di anni precedenti in cui, siccome nessuno riusciva a vincere le elezioni, i governi duravano in carica per poco tempo. I governi li faceva il Presidente della Repubblica e veniva quasi spontaneo invocarne l’elezione diretta. Però ora siamo in una fase diversa, tanto varrebbe perfezionare questa spinta che abbiamo ora.

Quindi Lei è d’accordo nell’affermare che l’elezione diretta del Presidente della Repubblica farebbe venir meno una serie di garanzie costituzionali, oltre a non poter garantire l’imparzialità rispetto alle forze presenti in Parlamento in quanto, di fatto, politicamente schierato?

Diciamo che se noi non risolviamo la questione di come si formano i governi e continuiamo ad affidare al Presidente della Repubblica il ruolo di formare i governi, è chiaro che eleggere direttamente il Presidente della Repubblica significherebbe determinare anche l’assetto del governo e quindi finirebbe per non essere super partes.

La campagna elettorale su cosa la farebbe il Presidente della Repubblica? Quale governo  vorrebbe che ci fosse a catena delle elezioni.

Così configurato non sarebbe un Presidente super partes. Ma, nel momento in cui possiamo risolvere la governabilità per altra via, attraverso il rapporto elettori-maggioranza-presidente del consiglio,perché dovremmo rinunciare a questo?

Dopo tanti anni di governi a prevalenza tecnica, che ci sia una maggioranza di politici eletti significa un rientro nella fisiologia, come nella maggior parte delle democrazie, governano i politici che noi eleggiamo, se governano politici mediocri è perché noi li votiamo.

Anche nell’antica Roma la carica di dittatore, ruolo tecnico nominato in caso di crisi, durava sei mesi.

Siamo d’accordo che il governo sarà a prevalenza centrodestra?

Si, certo

E, volgendo lo sguardo verso il polo progressista, secondo Lei la strategia elettorale di Enrico Letta, che ha cercato di polarizzare l’elettorato, ha funzionato? Si può ipotizzare in Italia un ritorno al bipolarismo, nonostante i partiti siano sempre di più e facciano riferimento solo ai rispettivi leader piuttosto che all’ideologia che ne aveva ispirato la creazione?

Qui il Segretario del Partito Democratico si è trovato di fronte ad un problema serissimo, in parte non risolvibile. Nel senso che, sapendo che la coalizione di centrodestra copre poco meno della metà degli elettori, per avere una proposta alternativa di governo avrebbe dovuto comporre una coalizione larga, cosa che non è riuscita. Per cui, di fatto, l’elettore ha avuto l’immagine di una coalizione larga, anche un po’ eterogenea, ma potenzialmente vincente alle elezioni, e di tre pezzi che minavano a ridurre i danni, ma non erano in grado di essere un’alternativa di governo. Questo spiega il pessimo risultato complessivo.

Però è anche vero che, Enrico Letta, in questo momento non avrebbe potuto fare un’alleanza con il MoVimento 5 Stelle, Letta si era battuto perché il governo Draghi durasse, mentre il MoVimento 5 stelle ha dato la stura alla caduta del governo. Questo rendeva impossibile riuscire, almeno sul breve termine, a organizzare una coalizione di governo.

Diversa è stata la gestione dell’altra parte di coalizione potenziale, rappresentata dalle forze di centro. Qui la  responsabilità prevalente può averla avuta Calenda, probabilmente per quel modo un po’ confuso di creare la coalizione, anche da parte del Partito Democratico, dovuto anche alla  fretta delle elezioni anticipate, che non è stato convincente.

Quindi diciamo, si è scontrato un polo contro tre pezzi. Se almeno fosse stato possibile mettere assieme il pezzo di centro con il Partito Democratico, ci sarebbe stata una coalizione che avrebbe potuto dare l’impressione di poter competere, che poi alla fine avrebbe probabilmente perso lo stesso,  però sarebbe stata una coalizione unita dal cemento politico di quelli che erano d’accordo con le linee profonde del governo Draghi.

La sconfitta era inevitabile, probabilmente sono stati fatti degli errori che hanno portato la sconfitta ad un livello superiore rispetto a quello che avrebbero riportato gli stessi partiti, se avessero agito diversamente.

Lei crede che, in caso di alleanza elettorale tra PD e Terzo Polo, la sconfitta non sarebbe stata così scottante?

Se ci fosse stato l’accordo tra il PD e la coalizione di centro non sarebbe stata per niente scottante, perché il terzo polo, è vero che ha preso numericamente il 7-8%, e quindi lo scarto tra le due coalizioni sarebbe stato comunque sempre intorno a 11-12 punti, però il terzo polo ha un elettorato concentrato in diverse aree urbane e molti collegi sarebbero stati vincibili. Il centrodestra avrebbe vinto comunque, non sarebbe probabilmente arrivato al 57-58%, sarebbe arrivato al 52-53%, però i rapporti di forza sarebbero stati gli stessi, anche per il prosieguo della legislatura.

Come vede il futuro dei progressisti in Italia? Solo due liste hanno raggiunto la soglia di sbarramento (“Partito Democratico” e “Alleanza Verdi e Sinistra”) mentre +Europa e Impegno Civico no.

Si, è però vero che Impegno Civico sotto l’1% ha disperso i voti, mentre +Europa, prendendo dall’1 al 3% , li ha regalati al Partito Democratico, quindi non è stato così tragico.

Se noi riflettessimo molto freddamente, in maniera non purista, dovremmo concludere che le distanze che ci sono tra polo di centro, PD e 5 stelle, tutti e tre compresi, non sono poi molto diverse da quelle che sono le distanze nell’intero centrodestra, la verità è che il centrodestra, in maniera più pragmatica, riesce sempre a riunire le sue forze, nell’altro campo invece ci si riesce poco.

Qui ci sono due linee di evoluzione possibile, una è quella che vede sostanzialmente d’accordo, in maniera un po’ paradossale, sia il MoVimento 5 Stelle sia i centristi. Qual è la tesi del MoVimento 5 Stelle e dei centristi? Che il PD deve scomparire, perché metà deve andare con il MoVimento 5 Stelle e metà deve andare con i centristi. Questa è la tesi di fondo, per quanto diversa negli esiti, è un’ipotesi francese: Partito Socialista deve scomparire, metà deve andare con Jean-Luc Mélenchon, l’altra metà con Emmanuel Macron.

Ma, se il sistema evolvesse così, ci sarebbero due pezzi di opposizione anziché tre, distantissimi tra loro, che non si potrebbero coalizzare e probabilmente il centrodestra avrebbe la vittoria garantita per un po’ di volte.

Secondo me il Partito Democratico invece deve dimostrare la propria utilità, rafforzarsi e funzionare da calamita per gli altri due pezzi, per garantire la costruzione di una coalizione plurale in grado di competere con il centrodestra.

Quindi ci saranno 4 o 5 mesi in cui il Partito Democratico andrà male, nei sondaggi sta già andando male, e perderà nei sondaggi rispetto al MoVimento 5 Stelle che probabilmente lo supererà, quando però a Marzo, farà le primarie aperte, una risorsa fondamentale per il Partito Democratico, tutti vedranno un milione di persone che vanno a votare ai seggi, e vedranno che il PD è l’unico partito in grado di garantire questo. Se riesce ad eleggere la leadership giusta, è in grado di ripartire e di funzionare da calamita per gli altri due pezzi. Questo penso che sia l’evoluzione positiva, non solo del Partito Democratico, ma anche dell’intero sistema, perché questo vorrebbe dire che la seconda parte della Legislatura l’avremo con un governo in carica, ma anche con un’opposizione in grado di batterlo alle successive elezioni, quindi questo in termini di fisiologia dell’alternanza, sarebbe assolutamente positivo.

Ritiene che il congresso del Partito Democratico porterà una grande partecipazione?

Non pensa che in questi 4 anni e mezzo ci sono state 2 Segreterie (dal 2019 al 2022, Segreteria Zingaretti di 2 anni e Segreteria Letta di 2 anni e mezzo) e gli elettori potrebbero essere sfiduciati dal cambio di Segreterie?

Io penso che quando il Partito Democratico convoca gli elettori per primarie aperte, sia praticamente impossibile che partecipi meno di un milione di persone, perché gli iscritti alla fine si assesteranno su 300.000, ma nel mondo attuale è molto più diffusa la domanda di partecipazione intermittente, cioè di persone che non vogliono partecipare sistematicamente, ma rispondono bene a un appuntamento chiave e si presentano. Quando vota un milione di persone, questo diventa un evento, che è un tonico spettacolare.

Il Partito Democratico tra il 2018 e il 2019 era un partito un po’ in catalessi e veniva dato quasi per morto, ma le immagini di tantissime persone che hanno votato per eleggere Zingaretti, hanno dimostrato che il Partito Democratico era vivo e poteva ancora funzionare, secondo me questo è la grande chance che ha il Partito Democratico a Marzo.

Il Partito Democratico deve capire la sua identità (partito di sinistra o di centro) oppure avere come priorità la costruzione di una coalizione?

Allora, io, questa storia dell’identità, non l’ho mai capita bene. Mi spiego.

L’identità di un partito è data dalla sua funzione, la funzione del Partito Democratico è l’essere il perno di chi sta nel centrosinistra per prospettare un’alternativa di governo, questa è l’identità.

Dopodiché dentro il Partito Democratico, il più grande partito di centrosinistra, come in tutti i grandi partiti di centrosinistra ci stanno fondamentalmente, due anime, come nel Labour Party, nel Partido Socialista Obrero Español ,  nel Sozialdemokratische Partei Deutschlands, c’è una posizione di sinistra più liberale e una posizione di sinistra più statalista.

Nei congressi si scontrano candidati che appartengono a queste due linee. Secondo me, in questi ultimi anni, con la crisi, anche fiscale, quando hanno vinto le posizioni di sinistra un pò tradizionalista, normalmente i partiti di centrosinistra hanno sempre perso le elezioni, quando hanno vinto posizioni più liberali, sono stati competitivi, poi magari hanno perso comunque le elezioni, però sono stati competitivi.

Basti pensare al caso del Labour Party, che sotto la leadership di Corbyn ha perso delle elezioni che probabilmente altri avrebbero potuto vincere. Viste anche le confusioni che stanno creando i conservatori, che ora, avendo cambiato asse politico/culturale con Keir Starmer, il Labour Party ha buone probabilità di vincere le prossime elezioni.

Quindi diciamo, che ci siano queste due anime nello stesso partito, lo ritengo assolutamente fisiologico, d’altra parte, dentro la coalizione devono esserci anime diverse per riuscire ad alternarsi rispetto al centrodestra, queste domande di omogeneità, di identità stretta, non si capisce perchè nessuno le faccia mai al centrodestra, che invece riesce sempre a combinare cose più varie e spesso vince anche per questo.

Parere personale: il centrodestra è capace di fare sintesi tra le diverse anime dei partiti, attraverso il centralismo democratico, tipico dei partiti nella Prima Repubblica, riesce ad arrivare a una linea comune della coalizione e del partito.

Fino ad oggi questa cosa molti la attribuivano a un fattore anomalo, cioè alla persona di Berlusconi che, anche grazie alla sua grande forza economica e mediatica, riusciva ad ottenere questo risultato. In realtà, il centrodestra sta dimostrando che riesce a raggiungere questo risultato anche senza Berlusconi. Allora, se ci riesce il centrodestra, perché non ci deve riuscire anche il centrosinistra? Questa è la domanda di fondo e la sfida, perché altrimenti, se ognuno si trincera dietro i purismi, garantisce al centrodestra la maggioranza dei seggi, allora se si vuole superare il purismo, bisogna entrare in questo tipo di logica.

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