di Alessandro Maran
Da un po’ di tempo a questa parte, con il crescere dell’instabilità politica globale e il riaffiorare degli estremismi, nel mondo anglosassone va molto di moda “The Second Coming”, il poema che il poeta irlandese William Butler Yeats scrisse nel 1919 (dopo il conflitto mondiale con i suoi orrori, lo sconvolgimento provocato dalla rivoluzione sovietica, il montare del nazionalismo e della violenza). Uno dei versi più citati recita: “Ogni cosa crolla; il centro non può reggere; e l’anarchia assoluta dilaga sul mondo” (e prosegue: “i migliori mancano di ogni convinzione, mentre i peggiori sono colmi di intensità appassionata”, ecc.). Le parole, e la loro riscoperta, riflettono, ovviamente, un crescente e diffuso senso di incertezza. Ma ci ricordano anche che il populismo di destra non può essere battuto con un populismo di sinistra. Contro il populismo “il centro deve reggere”.
C’è chi ritiene che l’unico modo per essere centrali nel futuro sia quello di abbandonare le prospettive di centro, non disperdere energie e impegnarsi per provare a cambiare “da dentro” il Pd. Claudio Cerasa lo ha scritto papale papale: “i ‘libberali’, anziché perdere tempo, devono decidersi a trovare un modo per farsi valere e provare di nuovo a scalare il Pd. Per tutti gli altri, c’è la buona vecchia Forza Italia”.
Il centro, inoltre, in Italia voleva dire Democrazia Cristiana; ed è sinonimo di moderatismo, indecisione, immobilismo, opportunismo e così via. Eppure, in tutti i paesi avanzati (indipendentemente dal sistema elettorale), dall’Olanda al Regno Unito, dalla Francia agli Stati Uniti (dove Joe Biden è stato il simbolo della resistenza di quell’elettorato democratico che ha respinto il tentativo del “socialista democratico” Bernie Sanders di egemonizzare a sinistra il partito, restringendone il carattere storicamente imperniato su un’ampia coalizione di centro-sinistra che comprende moderati e leftist, neoliberali e keynesiani, cristiano-sociali e sindacalisti presenti sia tra i bianchi “urbani”, sia tra le minoranze afroamericane e latinos), il “centro” non è il luogo dello status quo. Ma è il luogo dove proporre delle soluzioni radicali ma realistiche; soluzioni non ideologiche e praticabili. Senza contare che, come sempre, non è al centro politico che bisogna guardare, ma al “centro sociale”. Cioè alle forze dinamiche e potenzialmente “centrali” della società.
Del “centro”, perciò, c’è bisogno. Specie in un momento in cui, dovunque, i partiti estremisti vanno rafforzandosi. Una “politica di centro” si può certamente sviluppare nei “catch-all party”, nelle “big tent” che incoraggiano un ampio spettro di opinioni tra i loro membri, che comprendono molti e diversi gruppi ed idee, e quindi possono attrarre una vasta gamma di sostenitori. Del resto, non è un mistero per nessuno che, anche in passato, le più brillanti esperienze di innovazione della sinistra socialdemocratica (il New Labour di Blair e la Spd di Schroeder, che le elezioni le hanno vinte e rivinte) hanno indotto quei partiti a definirsi “centrosinistra” e “nuovo centro”. E non si è trattato di cedimenti all’avversario, ma di seri tentativi di ridefinire la funzione di quei partiti nella competizione con i conservatori. In forme diverse, più di recente, è accaduto anche in Francia con il Macron “et de droite et de gauche”. Qualche giorno fa il centro ha trionfato in Olanda e perfino in America, che nell’ultima campagna elettorale ha vissuto una micidiale radicalizzazione del confronto, il candidato democratico Biden ha vinto, appunto, con una “politica di centro”.
Ma come fa a rappresentare il centro (della società) un partito che ritiene che la cifra identitaria di un partito di sinistra sia l’anticapitalismo (che, con l’antiamericanismo, accomuna post-comunisti e post-democristiani ed è alla base della sintonia con i populisti)? Cosa ha a che fare con il centro (della società) un partito che si strugge nella nostalgia (di “quando c’erano i comunisti”) e che, più che attrarre elettori, vuole fare proseliti?
Dopo tante “rivoluzioni liberali” molte volte promesse e altrettante volte rinviate e contraddette, bisogna farsene una ragione: il Pd, su quel che conta davvero, sugli ideali di fondo e non tanto sulla “gestione”, non è realmente contendibile. Nel Pd, si può fare certo la minoranza liberal-democratica, ma è impensabile dare sul serio voce a quelle istanze liberal-democratiche che oggi in Italia non sono rappresentate. Le dimissioni di Veltroni, la parabola di Renzi (che, nonostante gli errori, ha il merito storico di aver trasformato la sinistra liberale, da sempre minoritaria, in un fenomeno di massa), espulso come un corpo estraneo (“estraneo all’anima di sinistra”), la caccia ai renziani (una “metastasi”) e il richiamo a Berlinguer dello stesso Letta, la dicono lunghissima.
Come accadeva nel Pci, l’area riformista può avere solo un ruolo ancillare, di condizionamento, ma non può guidare il partito. Insomma, quello di Renzi è stato un incidente, che non deve ripetersi. Ma proprio la “derenzizzazione” del Pd rimette in discussione la collocazione del partito nella cultura liberal-socialista, intravista per la prima volta al Lingotto da Walter Veltroni.
Non c’è, inoltre, nessuna discontinuità tra Zingaretti e Letta. Letta vuole percorrere, a braccetto con i grillini, ancora una volta la strada battuta più volte dal centrosinistra: quella di ricompattarsi per far fronte ad un nemico comune (un tempo era Silvio Berlusconi, ora è Matteo Salvini), rinunciando in partenza a pescare nel bacino opposto. Rinunciando cioè a parlare con il “centro della società”. Lo stesso biglietto da visita del nuovo segretario del Pd (voto ai sedicenni e ius soli) rappresenta una scelta che punta a creare un solco: “Di qua la sinistra, di là la destra”.
L’idea di fondo resta quella contenuta nella mozione di Zingaretti, e cioè che oggi la contrapposizione non sia quella europeismo liberal-progressista contro populismo, ma sinistra contro neoliberismo, all’interno della quale il populismo sarebbe solo una febbre passeggera (alimentata proprio dalle contraddizioni del neoliberismo) utilizzabile proprio perché attraversato da elementi di sinistra “anticapitalistici”. Ma il Pd era nato come unione dei riformisti. Era nato cioè dalla separazione tra la componente riformista e quella radicale dopo il fallimento dell’esperienza di governo dell’Unione (e un’alleanza che va da Fratoianni a Calenda e da Conte a Renzi ricorda l’Unione, non l’Ulivo). Ed era nato con l’idea non di allargare l’alleanza (che la tensione tra le diverse identità rende inevitabilmente instabile), ma di ampliare l’area del radicamento.
Questa sì, “un’avventura affascinate”. Perché significherebbe mettere in gioco la propria identità in un processo evolutivo che se ha successo produce risultati stabili. A destra, inoltre, non basta l’ingresso della Lega nel governo Draghi per traghettare Salvini da Perón a Pera, per dargli, cioè, quella credibilità e quell’affidabilità che ancora non ha. La Lega di Matteo Salvini ha strappato a Silvio Berlusconi la leadership della destra. E se ora dovesse proseguire la marcia di avvicinamento al Ppe, potrebbe diventare il perno di un centro-destra moderato, pienamente legittimato come coalizione di governo. Ma è presto per dirlo. L’appeal della Lega si è diffuso più a Sud, via via che Salvini ha messo la sordina ai temi “nordisti” delle origini e ha puntato (emulando altri nazional-populisti) sulle questioni “culturali”, enfatizzando cioè la minaccia che viene dall’islam e che molti collegano alla crisi dei rifugiati.
Per questo, come molti nazionalisti e populisti conservatori, sia negli Stati Uniti che in Europa, la Lega considera Putin un potenziale alleato proprio per le sue priorità internazionali: resistere alla radicalizzazione islamica, smantellare l’integrazione economica globale e combattere la secolarizzazione delle società occidentale. Il che però vorrebbe dire “l’abbandono dell’Occidente”, per citare il titolo di un bel libro di Michael Kimmage. Anche perché l’obiettivo di Putin è proprio quello di indebolire il tessuto della società occidentale e la stessa legittimità della democrazia liberale. Insomma, il paese ha bisogno di uno spazio alternativo ai due populismi. E bisognerebbe approfittare delle circostanze per strutturarlo. E’ difficile, certo che è difficile. Ce lo ha detto Sigrid Kaag, la leader della formazione liberale olandese che pochi giorni fa è arrivata seconda alle elezioni: “Non è mai facile. Se la vuoi facile, non muoverti, stai fermo, stai a casa: non cambiare nulla. È una questione di scelte”.
Pubblicato su Il Foglio il 30 marzo 2021
Già senatore del Partito democratico, membro della Commissione Esteri e della Commissione Politiche Ue, fa parte della presidenza di Libertàeguale. Parlamentare dal 2001 al 2018, è stato segretario regionale dei Ds del Friuli Venezia Giulia.