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L’Italia non deve avere paura del futuro

Giovanni Cominelli domenica 27 Ottobre 2019
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di Giovanni Cominelli

 

Non sono molti gli opinionisti, i giornalisti, le testate, gli autori di libri che denunciano il declino dell’Italia.

Le cattive notizie sono sgradevoli, non fanno vendere, non creano audience, non portano voti. Perciò la condizione reale del Paese e la sua collocazione nel mondo sono occultate.

Il giornalismo politico ha il suo daffare a commentare mosse, contromosse, tattiche e giri di valzer della politica quotidiana. D’altronde, è esso stesso coinvolto nel gioco politico quotidiano, è un giornalismo embedded, che “fa partito” e che tenta, spesso riuscendoci, di etero-dirigere la politica partitica. Non manca il giornalismo d’inchiesta, ma occupa solo gli interstizi della Rete.

Quanto alla ricerca accademica, riesce a fare fugace capolino sui mass-media, ma è ben lungi dall’entrare in contatto con la vita intellettuale quotidiana delle persone.

Perciò si parla quasi solo del presente. La politica vive di questo. Gli scenari vengono delegati agli economisti o ai sociologi, sono riservati a élites ristrette di operatori economici e finanziari. Il cittadino quotidiano è piegato sull’orizzonte quotidiano, la politica è quotidiana. Quando essa è audace, si spinge fino al 2022, quando scade la Presidenza della Repubblica.

 

I vistosi segni del declino

Eppure i segni di questo tempo di declino sono chiarissimi e intelleggibili. Il primo è quello dell’inverno demografico. Il secondo quello del tasso zero di sviluppo. Altri? I numeri dell’occupazione/inoccupazione, la crescita dell’analfabetismo funzionale, la caduta verticale della qualità e della quantità del sapere, coperta burocraticamente dal valore legale dei titoli di studio, così che aumentano le acquisizioni dei titoli e i livelli dei diplomi, ma diminuisce il contenuto di sapere/competenza.

Se, poi, passiamo dal (sotto-)sviluppo delle forze produttive alla qualità dello spirito pubblico e dell’etica pubblica, è evidente la crescita degli individualismi, degli egoismi, dell’irresponsabilità, della perdita di senso di cittadinanza, della paura dell’altro, dell’insulto, della volgarità e dell’odio. D’altronde, tutta la comunicazione radio-televisiva – dalla pubblicità ai talk-show, ai duelli televisivi, ai dibattiti sportivi – è centrata sul primato dell’emotivo rispetto all’epistemico: il criterio del successo non è la generazione di conoscenza della realtà, ma di emozioni.

Ma, forse, il segno più grave del declino è la perdita della speranza di migliorare, lo scetticismo cronico, l’emigrazione dei giovani. Il Paese è bloccato e irrigidito nella sua struttura corporativa, il gioco sociale è a somma zero.

 

Un rimbrotto urticante di Gesù

Perché non vediamo i segni dei tempi? Quali interessi ottundono la nostra intelligenza del mondo?

La lettura di Venerdì 25 ottobre del Vangelo di Luca, cap. 12, 52-59, ci riferisce del rimbrotto urticante che Gesù rivolge, senza timore di essere linciato, alla folla che lo ascolta: “Ipocriti! Sapete giudicare τὸ πρόσωπον – ciò che appare – della terra e del cielo, perché non sapete discernere τὸν καιρὸν – questo tempo cruciale – ? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?”. La risposta del Vangelo a tale domanda è che non sentiamo la voce di Dio nella storia.

Tradotto liberamente e laicamente, la risposta è che, confusi dai rumori del presente, non sentiamo la voce di fondo del “Dio della storia”. Di qui un’ipocrisia oggettiva, che produce un giudizio sdoppiato sul tempo presente e che ci impedisce di sentire le campane a stormo del declino in tutti i settori fondamentali della società civile e della politica? La nostra sordità intellettuale e morale è solo il frutto delle comode abitudini prodotte dal benessere degli ultimi settant’anni.
Alle ultime tre generazioni europee, di cui la prima nata tra la fine degli anni ’30 e l’inizio degli anni ’40 del ‘900, è toccata la fortuna della pace e dello sviluppo ininterrotto. Le due che le hanno precedute hanno distrutto se stesse e l’Europa in due guerre mondiali.
Dal 1945 la potenza militare americana ha garantito pace e sviluppo in Europa, cioè i diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino, gli istituti democratici, lo Sato del benessere.
L’Europa si è dedicata allo sviluppo, mentre gli americani la proteggevano con i missili nucleari. Lo sviluppo ci ha felicemente travolti. E’ vero che in questi decenni “il resto del mondo” non è mai stato in pace: qui, dall’oasi europea, abbiamo visto passare sugli schermi la guerra di Corea, i missili sovietici a Cuba, il Vietnam, le guerre arabo-israeliane, l’Iraq-Iran, la guerra afghana, i feroci conflitti genocidi in Centro-Africa, la guerra civile siriana…

Abbiamo visto scorrere molto sangue, ma sempre quello degli altri. E così avevamo dimenticato, qui nella nostra oasi, che la terra è invece, da sempre, la dantesca “aiuola che ci fa tanto feroci”.

 

Nostalgia del passato e paura del futuro

Al fondo della nostra cecità e sordità stanno la nostalgia del passato e la paura del futuro. Di qui lo stordimento nel consumo del presente. Facciamo fatica a prendere atto che il secondo dopoguerra è finito, ad accettare che gli Americani se ne stanno andando altrove e che d’ora in poi tocca a noi difendere la nostra civilizzazione da culture totalitarie e illiberali.

Questo è il senso della lezione curda per noi europei. Abbiamo paura. Ma non abbiamo più la forza di fare sacrifici e di insegnare i sacrifici ai nostri figli. La generazione dei baby boomers ha male-educato i propri figli, che a loro volta hanno male-educato i loro figli a stare nel mondo. Non siamo più in grado di dare loro il senso drammatico del cammino nella storia degli uomini, delle sfide e delle responsabilità che ci competono, in quanto esseri umani e in quanto cittadini, verso gli altri.

Gli individui, le famiglie, la scuola e le Università, i luoghi di lavoro, la politica hanno risentito delle culture faciliste, che, nello slancio di farci balzare a cavallo contro le resistenze di una società e di culture ancora autoritarie, hanno finito per farci cadere dall’altra parte.

 

Facciamoci gli affari nostri: non ha mai funzionato

In ogni caso, oggi il declino del Paese è in atto, quale orientamento consapevole di larga parte della società italiana e della politica che la rappresenta. Se qualcuno afferma questa semplice verità, viene accusato di “austerismo”, di catastrofismo, di vendere merci a buon mercato sul mercato dell’apocalittica. Scatta in molti un riflesso di pigrizia e di illusione, spesso rivestito di retorica patriottica e nazionalistica.

Se noi ci isoliamo dal mondo, se ci chiudiamo dentro i nostri confini, se ci facciamo i nostri affari, la rinascita è dietro l’angolo. Questo schema non ha mai funzionato nella storia umana: c’è sempre stata qualche tribù che ha preteso di farsi gli affari di quella vicina, le piacesse o no.
Il destino dell’Italia non è immarcescibile, non è al riparo della storia; è “soltanto” il risultato collettivo delle scelte individuali degli Italiani. In quanto scelte, sono reversibili e revocabili.
Di qui l’urgenza del lavoro epistemico e di una liberazione del cervello sociale dalle pastoie degli interessi corporativi. Di qui la domanda di una politica, che, mentre tenta quotidianamente di combinare le tessere del puzzle del governo e del potere, lanci delle passerelle sull’abisso, verso l’altra riva.
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