di Giovanni Cominelli
Non sono molti gli opinionisti, i giornalisti, le testate, gli autori di libri che denunciano il declino dell’Italia.
Le cattive notizie sono sgradevoli, non fanno vendere, non creano audience, non portano voti. Perciò la condizione reale del Paese e la sua collocazione nel mondo sono occultate.
Il giornalismo politico ha il suo daffare a commentare mosse, contromosse, tattiche e giri di valzer della politica quotidiana. D’altronde, è esso stesso coinvolto nel gioco politico quotidiano, è un giornalismo embedded, che “fa partito” e che tenta, spesso riuscendoci, di etero-dirigere la politica partitica. Non manca il giornalismo d’inchiesta, ma occupa solo gli interstizi della Rete.
Quanto alla ricerca accademica, riesce a fare fugace capolino sui mass-media, ma è ben lungi dall’entrare in contatto con la vita intellettuale quotidiana delle persone.
Perciò si parla quasi solo del presente. La politica vive di questo. Gli scenari vengono delegati agli economisti o ai sociologi, sono riservati a élites ristrette di operatori economici e finanziari. Il cittadino quotidiano è piegato sull’orizzonte quotidiano, la politica è quotidiana. Quando essa è audace, si spinge fino al 2022, quando scade la Presidenza della Repubblica.
I vistosi segni del declino
Eppure i segni di questo tempo di declino sono chiarissimi e intelleggibili. Il primo è quello dell’inverno demografico. Il secondo quello del tasso zero di sviluppo. Altri? I numeri dell’occupazione/inoccupazione, la crescita dell’analfabetismo funzionale, la caduta verticale della qualità e della quantità del sapere, coperta burocraticamente dal valore legale dei titoli di studio, così che aumentano le acquisizioni dei titoli e i livelli dei diplomi, ma diminuisce il contenuto di sapere/competenza.
Ma, forse, il segno più grave del declino è la perdita della speranza di migliorare, lo scetticismo cronico, l’emigrazione dei giovani. Il Paese è bloccato e irrigidito nella sua struttura corporativa, il gioco sociale è a somma zero.
Un rimbrotto urticante di Gesù
Perché non vediamo i segni dei tempi? Quali interessi ottundono la nostra intelligenza del mondo?
La lettura di Venerdì 25 ottobre del Vangelo di Luca, cap. 12, 52-59, ci riferisce del rimbrotto urticante che Gesù rivolge, senza timore di essere linciato, alla folla che lo ascolta: “Ipocriti! Sapete giudicare τὸ πρόσωπον – ciò che appare – della terra e del cielo, perché non sapete discernere τὸν καιρὸν – questo tempo cruciale – ? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?”. La risposta del Vangelo a tale domanda è che non sentiamo la voce di Dio nella storia.
Abbiamo visto scorrere molto sangue, ma sempre quello degli altri. E così avevamo dimenticato, qui nella nostra oasi, che la terra è invece, da sempre, la dantesca “aiuola che ci fa tanto feroci”.
Nostalgia del passato e paura del futuro
Al fondo della nostra cecità e sordità stanno la nostalgia del passato e la paura del futuro. Di qui lo stordimento nel consumo del presente. Facciamo fatica a prendere atto che il secondo dopoguerra è finito, ad accettare che gli Americani se ne stanno andando altrove e che d’ora in poi tocca a noi difendere la nostra civilizzazione da culture totalitarie e illiberali.
Gli individui, le famiglie, la scuola e le Università, i luoghi di lavoro, la politica hanno risentito delle culture faciliste, che, nello slancio di farci balzare a cavallo contro le resistenze di una società e di culture ancora autoritarie, hanno finito per farci cadere dall’altra parte.
Facciamoci gli affari nostri: non ha mai funzionato
In ogni caso, oggi il declino del Paese è in atto, quale orientamento consapevole di larga parte della società italiana e della politica che la rappresenta. Se qualcuno afferma questa semplice verità, viene accusato di “austerismo”, di catastrofismo, di vendere merci a buon mercato sul mercato dell’apocalittica. Scatta in molti un riflesso di pigrizia e di illusione, spesso rivestito di retorica patriottica e nazionalistica.
E’ stato consigliere comunale a Milano e consigliere regionale in Lombardia, responsabile scuola di Pci, Pds, Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola, membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi e del CdA dell’Indire. Ha collaborato con Tempi, il Riformista, il Foglio, l’ Avvenire, Sole 24 Ore. Scrive su Nuova secondaria ed è editorialista politico di www.santalessandro.org, settimanale on line della Diocesi di Bergamo.
Ha scritto “La caduta del vento leggero”, Guerini 2008, “La scuola è finita…forse”, Guerini 2009, “Scuola: rompere il muro fra aula e vita”, BQ 2016 ed ha curato “Che fine ha fatto il ’68. Fu vera gloria?”, Guerini 2018.