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Lo spettro dell’apocalisse, dal Medioevo al XXI secolo

Danilo Di Matteo mercoledì 12 Ottobre 2022
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di Danilo Di Matteo

 

Il filosofo Spinoza distingueva tra le due grandi passioni d’incertezza: la speranza e la paura. Dinanzi all’imprevedibile, può prevalere ora l’una ora l’altra, e non di rado le proviamo entrambe. Tutti vorrebbero che a prevalere fosse la prima; però, se la situazione è drammatica e non si intravedono ragionevoli vie d’uscita, diviene arduo non farsi sopraffare dalla paura.

Sui banchi di scuola, molti di noi hanno appreso, ad esempio, della grande paura per l’Anno Mille; la paura per antonomasia, forse. Non pochi temevano la fine del mondo. Tuttavia, ricordo che nell’intervista pubblicata (se la memoria non m’inganna) nel dicembre 1983 sul supplemento de l’Unità dedicato a 1984, l’utopia negativa di George Orwell, lo storico Jacques Le Goff ridimensionava quella “paura”, paragonandola ai movimenti per la pace dei primi anni Ottanta (era la stagione degli euromissili e delle grandi fiaccolate per la pace, appunto). Ricordava che la chiesa, in quei decenni inquieti, svolgeva una funzione simile a quella dei moderni mass-media e sottolineava come quella temperie, in realtà, non si fosse esaurita con l’Anno Mille (peraltro vi erano incertezze anche di calendario), continuando, poniamo, con la predicazione di Gioacchino da Fiore, più in generale con la tensione millenarista e con gli stessi movimenti ereticali.

Studiando, ho trovato di recente un riscontro sul volume Medioevo. I caratteri originali di un’età di transizione, di Giovanni Vitolo, a proposito del “movimento delle paci di Dio”. Poniamoci in ascolto: “Il rinnovato dinamismo della società europea, in piena crescita sul piano demografico ed economico, richiedeva condizioni di maggiore sicurezza per mercanti e contadini impegnati in grandi lavori di dissodamento”, superando “lo stato continuo di guerra”. “Una prima risposta, in mancanza di una forte autorità regia, fu data, già a partire dalla fine del X secolo” (qui torna l’Anno Mille), “dalla Chiesa attraverso il movimento delle paci di Dio, nato in Aquitania (Francia sud-occidentale), da dove si diffuse nel resto della Francia entro la metà del secolo seguente. Ne furono protagonisti i vescovi, i quali organizzarono grandi assemblee pubbliche di clero e popolo, per promuovere una mobilitazione collettiva a difesa dell’ordine pubblico, ma soprattutto delle chiese, dei chierici, dei monaci nonché delle categorie più deboli (donne, bambini, pellegrini, poveri). In quelle occasioni l’indice veniva puntato contro i violatori della pace, essenzialmente i signori detentori di castelli e i membri del loro seguito armato”, mobilitando contro di loro “anche principi e signori contrari alla violenza, i quali trovavano, peraltro, nelle iniziative vescovili un’occasione per tentare di riprendere il controllo dei loro indocili vassalli”.

Insomma, vi era quello che oggi chiameremmo un blocco sociale ostile ai “signori della guerra”.

Rispetto alla tragedia ucraina, le differenze, come è ovvio, sono abissali. Tanto per cominciare, non attraversiamo una fase economica espansiva. Tutt’altro. Un’analogia la coglierei, però: allora mancava “una forte autorità regia”; oggi, a torto o a ragione, è diffusa la percezione di un’Europa debole, se non assente.

Oggi, naturalmente, lo spettro dell’apocalisse è legato al timore dell’autodistruzione nucleare globale. E (anche) a tal riguardo, trovo prezioso un testo di Umberto Ranieri, che prende spunto dall’editoriale sul Domani di sabato 8 ottobre di Mario Giro, esponente della Comunità di Sant’Egidio e già viceministro degli Esteri. Ranieri, così a me pare, parte dalla necessità di discernere tra aggressore e aggredito. Solo al buio, aggiungo io, tutte le vacche sono nere. Già una luce fioca lascia intravedere le responsabilità. Occorrerebbe, dunque, far leva sul binomio pace e responsabilità. L’una non sta in piedi senza l’altra, neppure nell’era atomica. A maggior ragione nell’era atomica e del terrorismo mediatico su scala planetaria.

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