di Alberto De Bernardi
Mentre scrivo queste note è ancora in corso il confronto tra i partiti di governo per risolvere una crisi politica di indubbio rilievo. Infatti nonostante il volume di fuoco di una stampa filocontiana contro IV presentata come partito “antinazionale”, è del tutto evidente che essa non sia stata innescata da un colpo di testa di Renzi alla ricerca di visibilità e di posti, quanto piuttosto sia determinata da un lato dall’inconcludenza crescente del governo nella gestione della seconda ondata pandemica e nella definizione un progetto complessivo e strategico per l’utilizzazione dei fondi europei, e dall’altro dal tentativo sempre più esplicito di Conte di approfittare delle difficoltà del paese per accentuare il suo ruolo di capo politico di un governo populista che ha messo all’angolo i partiti e parla direttamente al popolo tramite l’ uso spregiudicato della comunicazione televisiva.
I piani di Conte: da maggiordomo a statista
Se nel Conte I il PdC era il maggiordomo di Salvini e Di Maio, nel Conte II grazie alla pandemia, il PdC ha cominciato da cambiare stile e programma nella convinzione che la debolezza crescente dei due principali partiti di maggioranza – Pd e M5S – avrebbe potuto trasformare un colpo di fortuna del tutto imprevisto e immeritato – diventare capo del governo dal niente e per niente – in una occasione straordinaria per assumere il ruolo politico di federatore della sinistra – Pd e Leu – con quel che resta del movimento panstellato, alla disperata ricerca di nuovi approdi per poter sopravvivere al collasso del suo confuso progetto populista. Ovviamente Conte non c’entra niente con la sinistra, in tutte le sue declinazioni, e la sua esperienza politica lo colloca più a destra di Alfano e Verdini, ma è sufficientemente intelligente da percorrere l’autostrada che la “maggioranza della maggioranza” gli ha disegnato davanti.
Questo progetto è diventato riconoscibile quando attraverso manovre ancora non del tutto chiare e senza opposizioni evidenti nel Pd e nel M5S Conte ha tentato di costruire un “governo parallelo” tra il tecnico e il politico per gestire le risorse enormi del Recovery fund al riparo dei partiti e delle istituzioni democratiche, e di porsi alla testa di una improbabile e pericolosa “fondazione” per gestire i servizi segreti del paese. In entrambi i casi il mantra del “ce lo chiede l’Europa” nonostante l’orchestrazione mediatica a reti e a testate unificate, si è infranta contro i dati della realtà: la UE non ha chiesto niente di simile, se non una struttura di monitoraggio sulla tempistica del piano, e soprattutto non c’è ancora un effettivo piano di utilizzazione dei fondi, che non sia proseguito su una scala più ampia della logica assistenziale dei “ristori” e delle protezioni attivare durante la pandemia.
Costruire il rassemblement demo-populista
La parola piano infatti presuppone un disegno e degli obbiettivi strategici che abbiano per oggetto il futuro del sistema-paese e che sono tanto più credibili e forti quanto più sono condivisi con le forze politiche e sociali. Per mesi Conte e la sua “maggioranza nella maggioranza” hanno proceduto un po’ come i ladri di Pisa: d’accordo nella notte e poi litigiosi di giorno, per difendere le presunte identità politiche, in un intreccio paralizzante di blocchi alle grandi opere infrastrutturali, pur approvate, di patrimoniali evocate e abbandonate, di riforme istituzionali ferme al palo e ormai entrate nel cono d’ombra dell’oblio.
Infatti l’accordo che l’iniziativa politica di Renzi ha messo a nudo e ha tentato di ostacolare è tutto iscritto nel paradigma politico tracciato da Franceschini nell’ultima intervista al Corriere della Sera di pochi giorni fa imperniato sulla creazione di un grande rassemblement demopopulista guidato da Conte, che escluda le forze riformiste e che si confronti in uno scontro bipolare con le destre.
Il programma di utilizzo dei fondi del Next generation EU risponde a questa priorità, che contempla un accordo nel quale le ambizioni decisioniste e centraliste di Conte si possano combinare con l’impianto assistenzialista e statalista dei 5S, di Leu e di componenti non piccole del Pd: il “resto” è secondario. Il Pd sa bene che la scommessa decisiva riguarda come utilizzare la massa delle risorse europee per rimettere in moto un paese fermo da vent’anni, attraverso l’intreccio di sostenibilità ambientale, tecnologie, reti infrastrutturali materiali e immateriali per ripensare i rapporti tra sud e nord, tra centro e periferie e tra città e campagna, istruzione, parità di genere, e attraverso la ripresa delle riforme istituzionali; sa bene inoltre che una 209 miliardi del NGEU (+ i 37 del MES) sono un’ opportunità unica e irripetibile come quella del Piano Marshall della fine degli anni ’40 del secolo scorso, ma a differenza della classe dirigente di allora che per ricostruire il paese scelse l’Occidente e chiuse l’esperienza politica dell’unità antifascista, quella del Pd di oggi fa l’opposto: subordina la rinascita del paese ad una alleanza strategica con il populismo euroscettico guidata da un personaggio che non ha nulla a che vedere con la storia del csx, invece di chiamare a raccolta tutte le forze riformiste sparse nel paese per guidarle nell’opera imprescindibile della rinascita nazionale. Il Pd sa bene, infine, quali rischi per la stabilità politica siano racchiusi nel taglio della rappresentanza parlamentare in assenza di tutti quei correttivi, prima denunciati e poi annunciati, ma che sono scomparsi dall’orizzonte politico e che modellare il sistema politico per sostenere lo scontro bipolare Conte-Salvini comporta lasciarsi dietro le spalle ogni aspirazione proporzionalistica e tenersi stretto quel poco di maggioritario che c’è nel Rosatellum o abbandonando ogni velleità germanofila.
Il PD non serve più
Per realizzare questo ambizioso programma il Pd è uno strumento politico inservibile. Infatti, nonostante i tentativi degli ex comunisti ed ex democristiani di strozzarlo in fasce, e nonostante il rinculo verso i DS operato dalla maggioranza stretta intorno a Zingaretti, il Pd resta un partito riformista, nato per unire i riformisti e per superare le vecchie culture politiche, che egemonizzavano i Ds e la Margherita. Resta un soggetto politico estraneo alla sinistra, che non lo può maneggiare come un vecchio partito di militanti tenuto insieme da una ideologia. Da questo punto di vista l’ultima intervista di D’Alema è assolutamente chiara: bisogna andare oltre il PD. Un andare oltre che è in realtà un ritorno a una riedizione dell’unico partito nel quale si poteva riconoscere quella generazioni di dirigenti “dalemiani” e i loro epigoni che hanno vissuto la nascita del PDS come il male minore e non come un “nuovo inizio” e quella del PD come un danno irreparabile che andava ridimensionato e anestetizzato in attesa di tempi migliori, cioè il Pci.
Ovviamente D’Alema e Bettini, che sono le uniche teste pensanti del Pd attuale, sanno bene che rifare il Pci sia impossibile e soprattutto non ne sarebbero capaci. Credono però che sia possibile ricostruire un partito che “abbia una visione del mondo”, intendendo con questo, non una analisi delle dinamiche politiche mondiali a partire da una tavola di valori distintiva, quanto piuttosto la vecchia idea di possedere “il senso della storia”, cioè una concezione dell’agire umano tesa verso un destino riconoscibile.
E’ chiaro che l’ultimo partito che ha condensato questa visione sia stato il Pci. A D’Alema poco importa interrogarsi sul fatto che proprio a causa di questa concezione della politica sia fallito malamente; importa invece segnalare la sua ostilità a un partito aperto, post-ideologico, che sappia mettere a sistema diverse “visioni del mondo”, che scelga le primarie come modo di confronto interno ed esterno, quale è stato il PD, in nome di un partito “antiamericano” di militanti e quadri tenuto insieme da un gruppo dirigente monolitico, unificato dalla riscoperta della “critica del capitalismo” in nome di Papa Francesco e di Keynes: un patchwork indigesto nel quale la lettura statalista del liberalismo progressista di Keynes si combina con l’utopia cristiana del regno di Dio sulla terra di tanto cattolicesimo sudamericano.
Ma l’operazione dalemiana serve a definire l’impianto ideologico dell’alleanza demo-populista tanto voluta da Franceschini, incapace di elevarsi a tali vette di pensiero, che non solo è distante mille miglia da un riformismo moderno, che può riscoprire Keynes, ma solo dopo aver sperimentato la “terza via” di Giddens, che ha tentato di declinare il tema dell’eguaglianza in una società individuale di massa come quella dell’Occidente di oggi, ma anche dalla tradizione socialdemocratica europea: distante soprattutto dalla proposta politica di Biden, che si colloca del tutto al di fuori dell’orizzonte dalemiano.
Il partigiano Renzi
In questo quadro si capisce perfettamente il carattere dirompente dell’iniziativa di Renzi e del fuoco di sbarramento del PD che si e spinto fino a dichiarare la propria preferenza per Di Maio piuttosto che per il leader di IV, perché costituisce una effettiva minaccia per la realizzazione di quel disegno politico, mettendo in evidenza la possibilità di una alternativa programmatica e politica, che guardi al nuovo corso della politica europea e americana senza nessuna nostalgia degli armamentari ideologici degli anni Sessanta e Settanta e senza nessun cedimento al populismo declinante, anche se preso in dosi omeopatiche.
Io non sono convinto che la vocazione al suicidio – come è stato rilevato – dell’attuale gruppo dirigente del Pd lo abbia interamente egemonizzato, anche se le voci critiche sono sempre più flebili e non si vedono iniziative politiche volte a ridefinire l’identità e la rotta del partito in senso riformista: qualche riformista si fa sentire, altri tacciono e si impegnano nella routine parlamentare, altri invece si sono pienamente identificati con questo progetto politico fino a diventarne entusiasti alfieri con quel tanto di unilaterale aggressività che è naturale nei neofiti. So, però, per certo che se Renzi e Calenda non ci fossero bisognerebbe inventarli, perché, insieme a + Europa, sono gli unici che combattono quasi a mani nude, e con l’appoggio di un manipolo di intellettuali, una sorta di guerriglia partigiana, come l’ha definita Cassese, per evitare che il paese perda l’unica possibilità di invertire la rotta del declino offerta dall’Europa e che si materializzi l’incubo di un sistema politico imperniato su una destra sovranista e antieuropeista e una sinistra populista.
Professore di Storia Contemporanea all’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna. Presidente della Fondazione PER – Progresso Europa Riforme. Componente del Comitato scientifico di Libertà Eguale. Tra i suoi libri più recenti: “Fascismo e antifascismo. Storia, memoria e culture politiche”, Donzelli Editore 2018, e “Il paese dei maccheroni. Storia sociale della pasta”, Donzelli Editore 2019