di Umberto Minopoli
Su tanti obiettivi della politica mondiale è facile stabilire l’obiettivo, le azioni e verificare (magari ai vertici successivi) i bilanci. Sui vaccini ai paesi poveri, ad esempio, o sulla crescita dell’economia.
Ma sul clima? si tratta di una questione definita di emergenza, ma il cui obiettivo è registrare risultati – l’abbattimento delle emissioni di CO2 – tra 8 anni (parziali) e tra 30 anni (per alcuni) o, nelle dichiarazioni tra quaranta (Cina o gli stessi Usa) e cinquanta (India). Messo così l’obiettivo sul clima sembra fatto apposta per creare frustrazione e l’impressione di essere sempre violato: i targets emissivi sono troppo ravvicinati nei tempi per non creare ansia e sono troppo lontani (e poco controllabili) per non dare, dopo ogni vertice (e sarà così anche alla Cop 26 di Glasgow) la sensazione di fallimento nel bilancio tra emergenza proclamata e risultati effettivi.
Il calcolo annuale delle emissioni di CO2 , statene certi, è correlato alla crescita economica: tanto Pil, tante emissioni. Per i prossimi 8 anni (quelli decisivi per la decarbonizzazione), e dopo il Covid, quale paese o potenza economica rinuncerà al proprio Pil in crescita? Al G20 o alla Cop27 del 2022, se ci sarà stata (speriamo) ripresa sostenuta registreremo più emissioni.
E allora? Occorrerebbe cambiare metodo: alla contabilità delle emissioni sostituire, almeno in parte, altri obiettivi e metodologie per decarbonizzare. Più concreti e verificabili. E non in contraddizione con la crescita economica.
Alcuni esempi: quante centrali a carbone sono state chiuse e sostituite da centrali, altrettanto potenti, ma meno inquinanti? Quanti MW di energia elettrica priva di carbonio (da rinnovabili e nucleare, è inevitabile) sono stati creati? Quanto idrogeno è stato sostituito ai carburanti classici per abbattere le emissioni nei trasporti o nell’industria? Quanta tecnologia no-carbon (batterie o sistemi di cattura della CO2) è stata sviluppata e, poi, diffusa (dai ricchi a favore dei poveri) per smettere di emettere, ma senza rinunciare ad avere più elettricità nei consumi energetici?
E, per carità di patria, non parliamo del problema più evidente delle “politiche climatiche”: la contraddizione, ansiogena e frustrante, tra catastrofi naturali (alluvioni, uragani, siccità, ecc.) e denuncia delle colpe antropiche (CO2) ma senza accordarsi sull’unica cosa da fare, i piani di adattamento.
Sul clima estremo non si può aspettare il 2050. Si dovrebbe fronteggiarlo con opere, infrastrutture, decisioni urbanistiche ed edilizie. Non aspettare che il mondo diventi senza carbonio antropico in aria.
E nel frattempo? Insomma: invece dell’ansia e della frustrante denuncia, fine a se stessa, sulle emissioni, concentrarsi su obiettivi concreti e, soprattutto, verificabili delle politiche climatiche. Fatte così, invece, generano solo impotenza e frustrazione. Spero di sbagliarmi.
Presidente dell’Associazione Italiana Nucleare. Ha lavorato nel Gruppo Finmeccanica e in Ansaldo nucleare. Capo della Segreteria Tecnica del Ministro delle Attività Produttive tra il 1996 e il 1999. Capo della Segreteria Tecnica del Ministro dei Trasporti dal 1999 al 2001. Consigliere del Ministro dello Sviluppo Economico per le politiche industriali tra il 2006 e il 2009.