di Antonio Preiti
Al Partito Democratico servirebbe un sentire comune “originalista”, cioè un movimento d’opinione, e fors’anche d’organizzazione, che rivendichi i principi fondativi su cui è nato, e ne invochi il rispetto o il ritorno, nelle parti e nei modi in cui non ne fosse più rispecchiato.
È nell’origine, che le cose si manifestano nella loro essenza; è nell’origine, che si proietta la luce per il loro avverarsi; è nell’origine, che le idee si rivelano nella loro rottura rispetto al passato. Così, se vogliamo capire l’essenza della Repubblica italiana, dovremo rifarci alla sua carta costituzionale e al dibattito che l’ha preceduta, con tutte le ragioni alla base dei singoli articoli. Negli Stati Uniti vive da sempre una corrente “originalista” (originalism) nell’interpretazione della Costituzione, che in sostanza afferma che ogni legge non può tradire lo spirito (e la lettera) da cui nasce l’identità del paese, e a quello spirito originario qualunque legge dovrebbe sempre ispirarsi.
Qual è allora l’originalismo del PD? Quali sono i suoi principi ispiratori che si sono manifestati alla sua nascita e che hanno operato una rottura formidabile rispetto al passato, sia della sinistra massimalista, che di quella socialdemocratica? Il primo principio è esattamente quello democratico (quale, sennò?) che consiste nel dare massimo potere dei governati nello scegliere i governanti. Principio democratico assoluto che si coniuga su più livelli e su differenti campi: dall’elezione diretta del sindaco e, eventualmente, della figura apicale del potere nazionale (premier o presidente) alle primarie per stabilire i candidati del partito a ogni tipo di elezione. “We the People…” dice la Costituzione americana; “La sovranità appartiene al popolo…” dice quella italiana. Insomma, un Partito Democratico non può che massimizzare le modalità attraverso cui i governati decidono da chi farsi governare.
Il secondo principio su cui è nato il Partito Democratico è che non c’è un’ideologia specifica, già definita, che monopolizzi, racchiuda ed escluda tutti gli altri contenuti presenti all’interno del partito. Anzi, la molteplicità delle anime culturali (non lo loro uniformità) è un fattore costituente del partito. Ogni persona (e anche ogni gruppo) hanno la loro “ideologia” (e non importa se è una corposa e compatta o una rarefatta e liquida) e con questa partecipa al dibattito culturale complessivo, da cui può uscire vittorioso o soccombente, ma sempre influenzando le posizioni complessive del partito. “Mi contraddico, contengo moltitudini” scriveva Walt Whitman, che ha dato poesia al Partito Democratico, un partito inclusivo che non ha mai amato, per altro, la retorica enfatica delle ideologie asfissianti. Perciò, competizione culturale, libertà e possibilità di competere con le proprie idee, definizione dell’identità culturale del Partito mai definitiva e sempre “ex-post”, mai “ex-ante” e legittimità di ogni versione della cultura democratica costituiscono il secondo pilastro del Pd originalista.
Il terzo principio è quello meno facile, ma non per questo meno rilevante, che potremmo definire di “primus inter pares”, secondo il quale il Partito Democratico appartiene alla società civile (non è un’entità a similitudine dello stato), non vi è sopra, non è sovra-ordinata, perciò agisce come un soggetto che si muove nella società civile insieme ad altri: fondazioni, associazioni, volontariato, organizzazioni locali per perseguire gli stessi scopi, vale a dire l’affermazione della democrazia nelle sue varie declinazioni di metodo e di contenuto. Un partito, in sostanza, che si muove dentro un arcipelago di cui esso stesso fa parte. Questo permette un ricambio continuo tra la dimensione politica e le altre dimensioni civiche, senza soluzione di continuità. È la connotazione di modernità del Pd rispetto ai partiti novecenteschi che abbiamo conosciuto.
Le “policies” che derivano dall’adozione di questi tre principi sono variabili e si definiscono secondo il ritmo e l’attualità che la realtà impone o suggerisce, secondo modalità che non si possono sempre prevedere, o programmare. Certamente, il credere nell’Europa, nell’Alleanza atlantica, nei valori dell’Occidente, da cui sono nati sia il liberalismo come il socialismo, sono le “conseguenze” più ovvie dell’attuazione dei tre principi, anche se la loro declamazione non ne esaurisce i contenuti. Ad esempio, dirsi fautori dell’Europa presuppone una grande varietà di conseguenze, sia graduali, sia di contenuto: cessioni di sovranità nazionali, e quali e quando? Criterio della maggioranza o della unanimità nelle decisioni europee, in quali casi e, ancora una volta, quando? Elezioni del Presidente della Commissione, e come e quando? Tutti interrogativi da cui sviluppare la storia sul crinale comune della formazione di un’Europa più forte e più coesa.
Ancora altri due esempi. La transizione ambientale e quella digitale (e il loro mix) sono un’ideologia da sbandierare o sono piuttosto degli obiettivi da raggiungere? Se è così, allora quello che si richiede è un’applicazione appropriata rispetto ai tempi e ai modi della loro attuazione: avere solo auto elettriche nel 2035 è qualcosa di liberale, o è un’imposizione monopolizzante e autoritaria? Possono coesistere più motori, come coesistono più mezzi di comunicazione e più prodotti che rispondono allo stesso scopo? Siamo già tutti nel digitale, ma questo forse significa che un algoritmo possa sostituire un contratto di lavoro, con una sua (auto-referente) legittimità giuridica?
Sulla questione dell’immigrazione, una volta assunto (e come potrebbe essere altrimenti?) la priorità della questione umanitaria, che è superiore a qualunque altra dimensione immaginabile, come ci si pone, strutturalmente, rispetto a questo problema? Quale politica è in grado di bilanciare la necessità e l’opportunità che il paese ospiti persone che provengono da paesi svantaggiati con la garanzia che tutto il processo di nuovi ingressi sia fatto con piena garanzia di legalità da parte del paese ospitante? Le soluzioni, tutte non facili, sono comunque molteplici, graduali e anche – se così si può dire – a geometria variabile (rispetto al paese di provenienza, rispetto ai legami familiari, rispetto alle tipologie professionali, ecc.). C’è la possibilità, anzi la necessità, di andare in profondità e con lucidità su questo problema che ha natura permanente e non occasionale.
In sostanza, non ci sono posizioni politiche o ideologiche che si possano stabilire una volta per sempre, sia perché la realtà cambia per sua forza interna, sia perché lo stesso problema si può porre in termini diversi con il passare del tempo e il mutare delle situazioni. Importante è la direzione di marcia. Se esiste perciò questa relatività delle “policies”, è poco lungimirante stabilire le appartenenze politiche solo o soprattutto sulla loro divaricazione temporanea o addirittura sulla ghirlanda della loro combinazione. Allora serve tornare (o andare) ai principi originali del Pd, che possono portare un senso di appartenenza che vada oltre la singola posizione politica sulla singola “issue“. Un originalismo che serve oggi più di quanto non servisse all’inizio della storia del Pd.
Economista, docente all’Università di Firenze. È cresciuto al Censis, ha insegnato alla Luiss Management, Università di Bolzano, ha diretto l’Agenzia del turismo di Firenze, ha lavorato per Banca Imi e altre imprese. Ha ricoperto la carica di Consigliere d’Amministrazione di Enit e Vice Presidente di ETC (European Travel Commission). Collaboratore del Corriere della Sera. Svolge professionalmente studi e ricerche per Sociometrica, di cui è Direttore. Twitter @apreiti web www.antoniopreiti.it