di Claudia Mancina
Che cosa significa essere ex-comunista? In questi tempi di guerra è difficile sottrarsi all’interrogativo. Manconi, per esempio, ha lavorato parecchio sul tema della sinistra, delle sue involuzioni o, come si è efficacemente espresso, della sua “catastrofe culturale”. Ma io sento una specifica responsabilità dell’essere ex-comunista, di essere stata per quasi vent’anni iscritta al Pci e poi di avere partecipato e attivamente contribuito alla fine di quel partito e di quella tradizione. Gli ex-comunisti, certamente, sono solo una parte del Pd. Quando il partito fu fondato, mettendo insieme i Ds (ultima incarnazione dell’eredità comunista) e la Margherita (ultima incarnazione dell’eredità della sinistra democristiana) sembrò evidente la prevalenza degli ex-Pci. Prevalenza numerica, ma non solo: di tradizione politica e di elaborazione intellettuale.
Fu un errore di valutazione. Con gli anni, superate certe diffidenze, gli esponenti di provenienza cattolico-democratica o cattolico-liberale hanno guadagnato una incontestata egemonia culturale e politica. Basta spuntare l’elenco delle maggiori cariche di partito e non solo: il segretario Letta, il presidente Mattarella, il commissario europeo Gentiloni, i ministri Guerini e Franceschini. Anche Draghi, sebbene non dal partito, viene comunque dalla filiera cattolica. Mi fermo qui. Quale può essere la ragione di questa egemonia? In prima battuta, si potrebbe dire che i cattolici democratici si sono trovati, con la caduta dei regimi comunisti, dalla parte giusta della storia. Non avevano abiure da fare. Sarebbe però una spiegazione, anche se non sbagliata, insufficiente. Nei giorni scorsi Recalcati ha parlato di mancata elaborazione del lutto da parte dei già comunisti. Questa è la chiave giusta, tradotta in termini politici. Noi comunisti ci siamo trovati, indubbiamente, dalla parte sbagliata. Eppure da quella parte c’eravamo stati in modo un po’ speciale, con tutta l’originalità del comunismo italiano: dall’adesione di Togliatti alla democrazia, al progressivo distacco di Berlinguer dall’Unione sovietica. In quel campo, tuttavia, sia pure con un piede solo, noi ci stavamo.
Eravamo comunisti. Non credevamo più che l’Unione sovietica fosse la patria del socialismo, ma avevamo ancora il mito della rivoluzione russa. Qualcuno distingueva tra Lenin e Stalin per salvare il primo. Pensavamo che la democrazia fosse la strada giusta, ma per arrivare a una sorta di nuovo e inedito socialismo. Il mercato ci sembrava comunque una bestia diabolica da domare con l’espansione più ampia possibile dello stato. Eravamo per l’Europa, sì, ma per un’Europa diversa, non troppo americana, non troppo capitalista. Soprattutto, ci sentivamo diversi dai socialdemocratici che erano bravi (quelli degli altri paesi), ma in fondo accettavano il capitalismo limitandosi ad addomesticarlo un po’. Su questa nostra tiepida coscienza scaldata dal senso di superiorità si è abbattuto l’89 e poi Tangentopoli. Allora il partito ebbe la forza di tirarsi su per il colletto, tipo barone di Münchausen, e di cercare una nuova identità. Non siamo stati però capaci di elaborare, per l’appunto.
L’eccezionalità del partito italiano avrebbe dovuto essere il punto di partenza per fare veramente i conti con il comunismo, con la sua storia grande e tragica. Avrebbe dovuto portarci a capire che la deviazione non iniziò con Stalin, che il destino fu scritto tra il febbraio e l’ottobre del 1917, quando fu affossata la rivoluzione democratica, sciolta l’Assemblea costituente, messe le fondamenta dello stato totalitario. Fu invece usata come schermo per non farli, i necessari ma scomodi conti. I luoghi comuni, le pigrizie intellettuali, le vecchie amicizie e inimicizie non furono sottoposte a severo scrutinio, ma conservate, se mai un po’ impolverate, e pronte a essere tirate fuori all’occasione. E l’occasione, cari ex-compagni, è arrivata con l’invasione dell’Ucraina. Credevamo di essere oramai definitivamente entrati nella Nato, dopo la presa di posizione di Berlinguer che risale, pensate, al 1976. E invece siamo ancora lì, al mito dell’Unione sovietica in absentia. Cioè, l’Unione sovietica non c’è più, ma il riflesso di solidarietà, di vicinanza, direi quasi di affinità è ancora vivo.
Travestito da pacifismo, o da realismo, o dal nichilismo del né-né, è un riflesso che fa sentire comunque più vicina la Russia, anche se criticata, degli Stati Uniti. La patria del capitalismo suscita più diffidenza di quella che fu la patria del socialismo. Certo, nessuno lo dice proprio così esplicitamente. Si dice piuttosto che la colpa è della Nato, che si è allargata a Est: ma se ci chiedessimo perché i paesi già appartenenti alla sfera di influenza sovietica hanno voluto entrare nella Nato? Forse avevano paura della Russia, forse volevano avvicinarsi, anche culturalmente, all’Europa occidentale? Oppure si dice che non c’è differenza tra l’imperialismo russo e quello americano: le bombe sull’Ucraina sono considerate equivalenti a quelle sull’Iraq o sulla Serbia. Ma, anche se per assurdo una simile equivalenza si potesse sostenere, come potremmo concluderne che non ci sia differenza tra una democrazia, con tutti i suoi difetti, e una autocrazia sanguinaria, dove non esiste libertà di opinione, non esiste informazione indipendente, e i dissidenti vengono ammazzati o messi in prigione?
Per un ex-comunista, questa tragica involuzione della Russia post-sovietica, che dopo una breve speranza di democrazia sembra essersi ricollegata, con un bel salto temporale, all’autocrazia zarista, per di più condita con la ferocia stalinista, è una sentenza terribile. Se settant’anni di comunismo hanno prodotto questo, che altro c’è da dire sul comunismo? Molto ci sarebbe stato da dire, se avessimo riflettuto su noi stessi, sulle scelte del Pci, mai portate sino in fondo, certamente, e tuttavia capaci di farne un partito costitutivo, a modo suo, della democrazia italiana e quindi, anche se non vi piace, occidentale. Ormai è tardi per farlo. Di quella grande e spesso eroica vicenda storica, che dovremmo considerare chiusa per sempre, restano questi incongrui riflessi: contro gli americani, contro la Nato, contro le spese militari, contro il dovere, morale prima ancora che politico, di aiutare un popolo invaso che, anziché arrendersi, combatte strenuamente contro l’aggressore.
Già docente di Etica all’Università “La Sapienza” di Roma, fa parte della presidenza di Libertàeguale. Deputato dal 1992 al 1994 e dal 1996 al 2001 nel gruppo Pds/Ds, è membro della direzione nazionale del Partito democratico. Il suo ultimo libro è “Berlinguer in questione” (Laterza, 2014)
Riflessione importante ma insufficiente. Bisogna avere chiaro in testa che comunismo e socialismo non hanno nulla in comune, che il comunismo è più simile al fascismo. Che ogni dittatura o autocrazia sono figlie dello stesso male il disporre della vita e della morte degl’altri. Dove l’intelligenza viene piegata alla volontà di pochi dove non c’è futuro ne crescita culturale nè economica.