di Gabriel Echeverría
Cercando di scavare un po’ al di sotto della rappresentazione romanzesca che ne è stata fatta, e che tutt’ora prevale nell’opinione pubblica – quella di uno scontro fra personalità, ambizioni di parte e rancori mal celati – la vicenda politica che ci tiene incollati agli schermi da 2 mesi, e il suo epilogo, hanno qualcosa di paradossale.
Colui che ha dimostrato di sapersi muovere meglio nella palude politica italiana, sfruttando in modo scaltro ma pienamente legittimo le opportunità e i vincoli offerti dal suo terreno limaccioso, in altre parole il più efficace interprete di quel sistema istituzionale bizantino codificato dalla “più bella costituzione del mondo”, è anche colui che si batté in modo più ostinato, fino al punto di rimetterci il posto, per provare a cambiarlo. In modo speculare, coloro che in questi due mesi hanno vituperato Renzi fino alla minaccia fisica e hanno denunciato il carattere ingestibile e a tratti allucinante del sistema che rendeva possibili le sue scorribande, sono coloro che quel sistema, fino a ieri, lo hanno difeso ad oltranza, negando ogni problema.
Provando a tenere fede a quel principio secondo cui dalle esperienze bisognerebbe provare ad imparare qualcosa, questo paradosso mette in evidenza due questioni collegate, una di metodo e una di sostanza, sulle quali varrebbe la pena di riflettere.
Quella di metodo ha a che fare con il fenomeno della cosiddetta “personalizzazione della politica”, legato inscindibilmente a quello della sua “spettacolarizzazione”. La parabola di Renzi mostra bene come oggi, complici i sistemi di comunicazione moderni e l’uso che ne viene fatto, l’opinione politica sia condizionata più da aspetti relativi alle qualità personali, caratteriali ed estetiche dei leader che dalla sostanza dei loro argomenti e battaglie.
A contare sono le valutazioni “a pelle”, spesso di natura irrazionale, quelle, per intenderci, che mettiamo in campo quando siamo alle prese con la scelta di un partner o di un amico. I sentimenti, diversamente dai ragionamenti, tendono ad essere assolutizzanti: o approvazione totale o rifiuto; o piena adesione o ostilità assoluta. Già al tempo della battaglia referendaria portata avanti da Renzi per modificare la costituzione, diventò chiaro che una gran fetta della contesa si giocava non tanto sui contenuti della riforma, quanto su questioni che poco avevano a che fare con l’effettivo oggetto del contendere.
Per molta gente, il NO era più un occasione per mandare a casa il “bullo” di Rignano che una presa di posizione cosciente sul quesito referendario. Col senno di poi, è probabile che quelle stesse persone, potendo tornare indietro, considerato che con una vittoria del SI il ruolo di Renzi oggi sarebbe stato ininfluente, farebbero un’altra valutazione. Risulta a tratti ironico, per non dire tragico, osservare che i problemi istituzionali del nostro paese, che furono negati per avversione personale, oggi sono forse compresi per lo stesso motivo.
Ma può un paese affidare la sua sorte alla pancia? Possono questioni tanto importanti essere interpretate dal pubblico solo attraverso valutazioni sentimentali sul leader di turno? Possiamo tornare a concederci l’ambizione, anche soltanto in termini utopici, di un approccio minimamente oggettivo ai problemi?
La seconda questione, quella di sostanza, si lascia intravedere sullo sfondo della vicenda di queste settimane. Al di là delle diverse valutazioni possibili sulla bontà del lavoro portato avanti dal governo Conte II, sulla sua adeguatezza rispetto all’enorme sfida posta dal Recovery Plan – la gestione di oltre 200 miliardi euro in pochi anni – sul effettivo salto di qualità che potrà dare il governo Draghi, il tema davvero importante, l’elefante rosa in mezzo alla stanza che nessuno vuole vedere, è che, nel nostro paese, quando i nodi vengono al pettine, quando diventa necessario prendere decisioni complesse e onerose, il sistema politico va in tilt e i partiti, senza troppe lamentele, sono pronti a cedere il timone a qualcuno che faccia il lavoro sporco.
Questa circostanza, che si ripete in modo ciclico da almeno 30 anni – ricordiamo il Governo Ciampi, il Governo Monti e ora quello Draghi – non può lasciarci, ancora una volta, indifferenti. Se anche Draghi riuscisse a sistemare i problemi che oggi appaiono urgenti, procedere a una affrettata rimozione delle circostanze che ci hanno portato fin qui sarebbe deleterio. I costi di questa dinamica ricorrente, in cui la politica abdica per manifesta incapacità a favore di figure salvifiche, quasi mitologiche, per poi, una volta rimessa in sesto la barca, procedere a demolirle per tornare alla ribalta come se niente fosse, sono enormi e non possiamo più permetterceli. In questo grottesco gioco dell’oca, la casella da cui ripartiamo ogni volta è sempre più lontana dal traguardo e ci trova più sfiduciati, cinici e indebitati.
I problemi dell’Italia, e forse alla luce di come è andata questa legislatura, oggi sono in grado di comprenderlo anche coloro che lo negarono nel 2016, non sono legati alla personalità di questo o quel politico, alla bontà di questo o quel movimento, alla solidità di questa o quella ideologia. No, i problemi dell’Italia sono legati alla disfunzionalità del sistema politico. Al fatto che, per come è congegnato, incentiva la frammentazione delle forze politiche (le scissioni ripetute, i partiti dell’un per cento); premia il trasformismo (i cambiamenti di casacca e di schieramento); favorisce la creazione di governi deboli e incapaci di azione incisiva, sostenuti da maggioranze disomogenee e litigiose; amplifica il potere di ricatto di piccole forze che possono far saltare i governi con pochi parlamentari; agevola l’irresponsabilità dei partiti che non dovendo prendere mai pienamente in mano il timone possono sempre addossare la colpa dei fallimenti a qualcun altro; determina un conflitto permanente fra i livelli di governo (stato centrale e regioni).
Ne consegue, una debolezza strutturale della politica e dunque della democrazia. Se l’ingranaggio che dovrebbe vincolare in modo chiaro ed efficace elettori, eletti, e capacità di governo si inceppasse, la barca proseguirebbe il suo viaggio ma nella direzione scelta dal vento.
La crisi che affronta oggi l’Italia, prima ancora che sanitaria, economica o finanziaria, è di natura politico-istituzionale. Forte del suo prestigio personale, della sua imparzialità e del clima di unità nazionale che in pochi giorni è riuscito a ispirare, messo in sicurezza il Recovery e razionalizzati i diversi aspetti della gestione pandemica, la vera priorità che Mario Draghi dovrebbe affrontare è quella di governare un processo di riforma del sistema politico che sia capace, con il contributo di tutte le forze politiche, di aggiustare il motore istituzionale del nostro paese.
Si dirà forse che l’agenda del nuovo governo fa già tremare i polsi così com’è e che ogni obiettivo raggiunto sarà un mezzo miracolo. Si dirà che non è il momento di divagare peccando di benaltrismo. È giusto intendersi: se il cuore del problema non verrà affrontato, più presto che tardi saremo di nuovo con l’acqua alla gola a invocare qualcuno che ci salvi dalla politica.
PhD in studi migratori presso l’Universitá Complutense di Madrid, collabora in progetti di ricerca con diverse università europee. Twitter: @gabasaw