di Stefano Ceccanti
Milano, 30 novembre – intervento all’Università Bocconi
Non penso che possiamo affrontare questo tema se non delimitiamo bene la prospettiva comparata.
I vari interventi della giustizia costituzionale italiana, sia quelli diretti (sulla legge Calderoli e sul cosiddetto Italicum) sia quelli indiretti (rispetto all’ammissibilità dei referendum) si comprendono all’interno di una lunga transizione istituzionale tra le due polarità classiche delle democrazie consensuali e maggioritarie, quindi non sono immediatamente comparabili ad altri interventi puntuali di altre Corti nella stessa materia.
Forse l’unico caso comparabile è quello della Décision n° 62-20 DC del 6 novembre 1962 in cui su ricorso del Presidente del Senato il Consiglio Costituzionale francese si dichiarò incompetente a decidere sulla costituzionalità della legge di riforma costituzionale sull’elezione diretta del Presidente della Repubblica approvata con referendum il precedente 28 ottobre. In quel caso il Conseil validò il completamento della transizione alla democrazia maggioritaria, ma, d’altronde, al di là del dibattito dottrinario, sarebbe stato ben difficile smentire ex post un verdetto popolare così chiaro.
Se si condivide la scelta metodologica precedente ne consegue anche una linea ermeneutica che, al di là delle singole sentenze, note e commentate da molti, le legge nel contesto della transizione come scelte di “opportunità costituzionale” rispetto alle possibilità aperte di esercitare un ruolo di freno o di acceleratore. Aperte in quanto, com’è noto, scarsi sono i vincoli costituzionali rispetto ai criteri di ammissibilità dei referendum (art. 75 Cost.) e ancor più quelli relativi ai sistemi elettorali (art. 48 Cost). In presenza di vincoli scarsi è chiaro che prevalgano scelte di “opportunità costituzionale” non del tutto arbitrarie ma che, comunque, non discendono direttamente dai parametri del testo e che quindi comportano un’elevata politicità ben più di altre decisioni.
Le decisioni chiave di metodo, ossia sull’ammissibilità dei referendum in materia elettorale, sono state tre.
La prima, la sentenza 47/1991, con l’ammissione del solo referendum sulla preferenza unica, il più inoffensivo perché non incidente sul nucleo più duro della formula elettorale, il criterio proporzionale o maggioritario di trasformazione dei voti in seggi, a differenza dei due quesiti bocciati sulla legge elettorale del Senato e su quella dei comuni, la possiamo leggere come la sentenza dello “spiraglio”. Da anni si discute ormai di riforme elettorali, il sistema dei partiti sembra indebolito, ma non ancora in crisi radicale: l’opportunità costituzionale suggerisce di aprire uno spiraglio all’intervento popolare per esercitare un ruolo di stimolo ad una responsabilità che potrebbe essere esercitata ancora dalle forze politiche anche grazie a questa possibile spinta.
La seconda, la sentenza 32 del 1993, registra l’esplosione pressoché definitiva del sistema tradizionale dei partiti, che non ha saputo far tesoro dell’esito della consultazione del 1991. Rispetto alle convulsioni del sistema, all’emergere di nuove formazioni come la Lega e la Rete, e alle iniziative giudiziarie seguite all’indebolimento dei partiti tradizionali rilevato con le Regionali del 1990, il referendum del 1991 e le politiche del 1992, l’opportunità costituzionale porta a vedere nell’ammissibilità, nell’accelerazione, un pezzo di una possibile pars construens di ricostruzione del sistema.
Saltando le sentenze intermedie, meno rilevanti negli effetti sul sistema, l’ultima veramente rilevante pare l’ultima, la 13 del 2012, che boccia la possibile reviviscenza della legge Mattarella in alternativa alla vigente Calderoli, che funziona da freno, nel contesto di crisi di sistema che era stata affrontata poche settimane prima, il 16 novembre 2011, con la nascita del Governo Monti. L’opportunità costituzionale, rispetto a quella novità, portava, all’opposto del 1993, a vedere come stabilizzante una sentenza di freno, affidando al nuovo quadro politico il compito di risolvere anche i problemi posti su quel tema.
Mentre alla fine degli anni ’80 la fine della Guerra Fredda aveva portato ad una maggiore omogeneità delle forze politiche ed aveva quindi dato argomenti ai sostenitori del passaggio ad una democrazia maggioritaria, la crisi del secondo sistema dei partiti e l’emergere con le elezioni Politiche del 2013, di formazioni critiche nei confronti del sistema, anche rispetto ai fondamenti della democrazia rappresentativa, ha portato larga parte della classe dirigente a rimettere in discussione, almeno sul piano nazionale, l’opportunità di quella transizione. Insieme a questa preoccupazione stava anche un’argomentazione di per sé non manifestamente infondata, ma a cui era dubbio dovesse rispondere la Corte: un’offerta politica diventata tripolare in un turno unico di votazione portava dal 2013 a una sovrarappresentazione molto marcata del vincitore.
In questo contesto l’opportunità costituzionale ha condotto, anche con un’evidente forzatura sul piano dei criteri di ammissibilità già evidentissimi nel discutibilissimo rinvio della Cassazione, alla sentenza 1/2014, il cui cuore è consistito appunto nella riproporzionalizzazione del sistema attraverso l’eliminazione dei premi di maggioranza (accanto alla molto discutibile invenzione della prefrenza unica nella legge del Senato, dove non era mai esistito il voto di preferenza) e, infine, alla 35/2017 che ha eliminato il ballottaggio dell’Italicum. In questo secondo caso la Corte ha comunque, e soprattutto, tratto le conseguenze del nuovo contesto seguito al verdetto referendario del 4 dicembre.
L’opportunità ha però anche portato a non eccedere nella riproporzionalizzazione estrema del sistema, con la recente sentenza non ancora pubblicata che ha salvato la soglia di sbarramento nazionale del 4% per le elezioni europee.
Il punto problematico della vicenda, almeno al momento è questo: se nell’ultima fase la transizione ad una democrazia maggioritaria è stata vista sfavorevolmente da molti per l’eterogeneità crescente e per il possibile successo di forze antisistema grazie a sistemi selettivi, in realtà alla fine un Governo di forze antisistema si è imposto lo stesso dentro un quadro proporzionalistico determinato in gran parte dalle sentenze più recenti. I colpi di freno sembrano quindi aver contribuito ad una paradossale eterogenesi dei fini. L’opportunità costituzionale nell’ultima fase, a differenza di quelle precedenti, non sembra aver conseguito un obiettivo di stabilizzazione del sistema.
Vicepresidente di Libertà Eguale e Professore di diritto costituzionale comparato all’Università La Sapienza di Roma. È stato Senatore (dal 2008 al 2013) e poi Deputato (dal 2018 al 2022) del Partito Democratico. Già presidente nazionale della Fuci, si è occupato di forme di governo e libertà religiosa. Tra i suoi ultimi libri: “La transizione è (quasi) finita. Come risolvere nel 2016 i problemi aperti 70 anni prima” (2016). È il curatore del volume di John Courtney Murray, “Noi crediamo in queste verità. Riflessioni sul ‘principio americano'” , Morcelliana 2021.