di Alessandro Maran
Un mondo sottosopra
Che il mondo sia sottosopra lo dicono tutti, ma ci sono molti modi di raccontare un’era, la nostra, sempre più turbolenta.
C’è chi ritiene che le crisi che attirano l’attenzione mediatica saranno viste nel corso della storia come una specie di trama secondaria che alla fine sarà completamente oscurata dall’ascesa della Cina. C’è chi ritiene invece che l’ascesa della Cina e il possibile degrado della democrazia liberale non contino veramente. Perché il mondo è alla vigilia di una nuova rivoluzione industriale, stavolta una rivoluzione digitale, il cui impatto sarà più grande di quello della prima.
Inoltre, c’è chi pensa che la minaccia che più di ogni altra è destinata a definire il nostro secolo sia quella del cambiamento climatico. C’è anche chi ci ricorda che, se si considera il benessere complessivo dell’umanità, il 2017 è stato il migliore anno della storia dell’uomo. Le persone non sono mai vissute così a lungo, così bene e così liberamente.
Ovviamente, c’è del vero in ognuno di questi racconti. Viviamo, insomma, in un mondo di cambiamenti in accelerazione, che insieme stanno rimodellando il lavoro, l’istruzione, la geopolitica, l’etica e le comunità, in un mondo in cui le persone sentono che delle forze e degli interessi che sfuggono al loro controllo stanno cambiando le loro vite. Da qui la rabbia per le disuguaglianze crescenti e il divario crescente tra le persone istruite e quelle meno istruite; lo scontento per la cattiva gestione dell’immigrazione di massa; il disagio crescente per il processo di integrazione europea, la «faccia visibile» della competizione.
L’ordine liberale mondiale: un’anomalia storica
Partirei da qui. L’ordine mondiale liberale in cui viviamo dal 1945 oggi, si sa, non sta tanto bene. Ma non sarebbe male tenere a mente che, come sostiene Bob Kagan, quell’ordine, il principale pilastro dell’edificio riformista, è una deviazione, un’anomalia storica. Il nostro è un periodo completamente diverso dal passato. Prima la maggior parte delle persone ha vissuto in condizioni di estrema povertà, ha conosciuto la dittatura, ha vissuto in epoche durante le quali le grandi potenze, gli imperi, erano in una condizione di guerra permanente. Eppure, proprio a causa degli incredibili successi di questo periodo, siamo arrivati a considerare tutte queste cose come se fossero normali. E abbiamo perso di vista quanto sia costato questo ordine internazionale e «quale atto di sfida alla storia e persino alla natura umana» abbia rappresentato.
L’interdipendenza: il pilastro dell’edifico riformista
Se l’Anpi non fosse in altre faccende affaccendata, ogni giorno che passa dovrebbe ricordare che l’antifascismo non ha riguardato solo la storia d’Italia, ma, appunto, i caratteri del nuovo ordine mondiale generato dalla guerra. Ciò che rese possibile la formazione della coalizione antifascista – con l’iniziativa di Roosevelt di gettare tutto il peso degli USA nel conflitto, di allacciare una alleanza con l’URSS, di tracciare nella Carta Atlantica una prospettiva nuova, una volta eliminati nazismo e fascismo, per i paesi europei e per il mondo nel dopoguerra – non fu solo la minaccia del dominio hitleriano, ma anche la convinzione che, con la sconfitta del fascismo, si potesse instaurare un ordine internazionale fondato sull’interdipendenza economica e su relazioni politiche multilaterali; la convinzione che questo avrebbe consentito di diffondere la crescita economica, ma anche di favorire, a livello nazionale, la combinazione di sviluppo e democrazia. Quel programma ha ridefinito l’idea stessa di nazione, che oggi non è separabile dall’idea di cittadinanza. Quel programma generò la costruzione dell’Unione europea.
Il ritorno della storia
Se guardiamo all’Europa di oggi, ciò che si vede è «il ritorno della storia e della natura umana». Sono in molti oggi, ad esempio, a sottovalutare il significato e le conseguenze dell’intervento militare russo in Ucraina. Ad un cambio di regime causato da un movimento di protesta dal basso, la Russia ha risposto annettendo la Crimea e fomentando un movimento separatista nelle regioni orientali del paese. La crisi ha evidenziato non solo la scarsa capacità di analisi predittiva da parte della Ue e la sua incapacità di agire come interlocutore unitario, ma anche che la Ue e la Russia rappresentano modelli di integrazione politica ed economica – di più: due universi – che collidono. E dobbiamo sapere che se il principio che ha mosso Putin – la necessità di proteggere i diritti e l’incolumità della popolazione russofona – dovesse affermarsi come «normale», la giostra è destinata a ripartire: Kalinigrad si chiamava Königsberg, Pola è italiana. Tornare alla normalità significa tornare alla guerra.
Non è un caso che i cambiamenti nelle politiche economiche interne ed internazionali di questi anni abbiano messo sotto pressione in particolare i partiti di centrosinistra. L’ordine costruito, dopo il 1945, in Europa occidentale ha rappresentato una rottura decisiva con il passato. Dopo il 1945 lo stato è diventato il guardiano della società anziché quello dell’economia, e gli imperativi economici hanno dovuto a volte cedere il passo a quelli sociali: è stato un ordine social-democratico. E poiché il centrosinistra è stato identificato (più di ogni altro) con quest’ordine, è stato anche quello che ha subito di più i contraccolpi generati dal suo deterioramento.
Le pressioni poste fin dagli anni ’70 dalla globalizzazione, dai crescenti deficit pubblici hanno costretto il centrosinistra a definire nuove strategie in grado di rimettere in moto le economie e proteggere i cittadini dai cambiamenti indotti dal capitalismo in continua evoluzione. Ma non c’è modo di tornare indietro. E come si affanna a ripetere Enrico Morando, oggi «che il governo delle sofferenze e contraddizioni sociali create dal capitalismo non è più possibile alla dimensione nazionale, è venuto meno lo strumento fondamentale usato dalle socialdemocrazie per fornire una organizzazione al capitalismo». E il compito del presente è proprio quello di costruire il nuovo sovrano europeo (anche con le forze di centro-destra che contrastano a loro volta i sostenitori della chiusura). Questo ci dà una prospettiva.
É in gioco l’Europa
Da quasi due mesi, l’Italia ha un governo che ritiene che il nostro interesse nazionale corrisponda alla messa in discussione dell’Eurozona. Che la posta in gioco sia la concreta distruzione di un profilo nazionale affermatosi in settant’anni, e generatore di crescita sociale e civile, dovrebbe essere ormai chiaro a tutti. Ma non c’è un piano B. La Repubblica italiana nata dopo la sconfitta del fascismo non è immaginabile al di fuori dell’Alleanza Atlantica e del mercato comune europeo. Il ritorno della giungla non farebbe che approfondire la frattura tra il Nord e il Sud del Paese, fino a metterne in discussione la stessa unità nazionale. O qualcuno crede che la Lombardia possa davvero uscire dall’euro e dal mercato comune europeo? E che sia la Lega il partito nazionalista la dice lunghissima su un paradosso: i nazionalisti italiani – a differenza di Marine Le Pen – sono dei nazionalisti senza nazione.
La crisi della socialdemocrazia europea
La socialdemocrazia in Europa (ma non solo) attraversa una crisi gravissima. David Miliband, l’ex ministro degli esteri della Gran Bretagna, nel 2011, in un intervento alla London School of Economics, aveva messo in fila i dati del disastro generalizzato del centro-sinistra europeo: nelle elezioni del 2010 il Labour Party aveva ottenuto il secondo peggior risultato elettorale dal 1918; in Svezia, durante lo stesso anno, i socialdemocratici avevano portato a casa il peggior risultato dal 1911; nel 2009, in Germania la SPD, una volta il partito di sinistra più forte dell’Europa continentale, aveva registrato (…) la più consistente emorragia elettorale di ogni altro partito nella storia del paese; nel 2007, in Francia per la sinistra di governo il risultato è stato il peggiore dal 1969. Dal 2011 le cose sono certo cambiate, ma, come abbiamo visto, in gran parte in peggio. Nel 2017 in Francia, nella Repubblica Ceca e in Belgio, i socialdemocratici sono crollati a percentuali di una sola cifra, i laburisti olandesi hanno ottenuto il peggior risultato della loro storia, la SPD ha raggiunto la percentuale più modesta dal 1933 e in Austria il numero di seggi più esiguo dal Dopoguerra.
Dieci anni dopo l’inizio della peggiore recessione economica dalla Grande Depressione, (una crisi finanziaria globale causata in buona parte dalla leggerezza del settore privato), i partiti che sono stati puniti sono principalmente quelli di sinistra mentre i partiti premiati sono principalmente quelli di destra. Perché?
Sheri Berman, un professore del Barnard College, raggruppa le risposte intorno a tre fattori. Il primo riguarda i leader: per vincere, il centro-sinistra ha bisogno di leader in grado di comunicare con un elettorato diversificato ed esigente. Ma com’è naturale, gli individui ambiziosi e di talento sono attratti da quei partiti che sembrano essere davvero in grado di affrontare le sfide dell’oggi. Non è un caso che l’unico leader di centro-sinistra alla guida di un importante paese occidentale non sia Corbyn, che le elezioni le ha perse tutte, ma il canadese Justin Trudeau, una figura carismatica che ha risvegliato gli elettori con il suo messaggio ispirato alle «sunny ways».
Il secondo fattore indicato da Berman ha ovviamente a che fare con i cambiamenti strutturali che oggi costituiscono la sfida principale, specie se si considera, insisto, la natura dei sistemi economici del periodo successivo alla Seconda guerra mondiale. Ma i partiti di centro-sinistra sono stati sfidati anche dai cambiamenti sociali e culturali che hanno messo a rischio le identità tradizionali e le comunità (un processo ulteriormente esacerbato, specie in Europa, dall’immigrazione in aumento). Ovviamente, non sta scritto da nessuna parte che i cambiamenti economici, sociali, culturali e istituzionali condannino il centro-sinistra. Il guaio è che il centrosinistra manca dappertutto (e veniamo al terzo fattore indicato da Berman) di riposte convincenti e coerenti.
Le specificità italiane
Ovviamente, nella catastrofe elettorale del Pd ci sono molte cose specificatamente italiane che riguardano le istituzioni, gli individui e le idee.
Va da sé che uno dei fattori cruciali è rappresentato dal sistema elettorale (…) prima del 4 marzo scorso il Pd ha preso una legnata da cui non si è ancora ripreso il 4 dicembre 2016, quando all’Italia è stato impedito di avere un sistema capace di alimentare la vocazione maggioritaria. E l’introduzione del sistema semi-presidenziale francese dovrebbe essere il primo punto programmatico dell’oggi, come in passato aveva fatto l’Ulivo.
Leadership
Le liberal-democrazie sono diventate dovunque più leader-centriche e personalizzate. Ora che Renzi non piace più, bisogna riconoscere che ha saputo rianimare una legislatura che sembrava finita in un vicolo cieco, ha costretto la sinistra a fare i conti con i suoi limiti e ha avuto il merito indiscutibile di tagliare il cordone ombelicale con il cattolicesimo democratico e con le ambiguità del postcomunismo. Di più: l’ex sindaco di Firenze ha ripreso quasi tutte le idee-chiave della sinistra liberale e con queste idee ha sfidato la maggioranza del Pd. Ma oggi, come scrive Carmelo Palma, Renzi sta al renzismo come Hillary al clintonismo.
Contro Renzi, si sa, si è scatenata una guerra senza quartiere (e ancora una volta ha vinto la «levelling coalition»), ma di errori Renzi ne ha fatti parecchi. Secondo Silvio Berlusconi «a Renzi va riconosciuto il merito di aver chiuso con la tradizione comunista del suo partito, ma ha trasformato il Pd in una scatola vuota che si riempie solo con aspirazioni di potere». E c’è del vero. Ma si tratta, di riempire di contenuti quella scatola, di provare, cioè, a ricostruire un partito seriamente riformista in grado di combattere un sistema di valori antitetico alla modernità. So che in molti nel Pd pensano di allearsi con i Cinque Stelle. E ritengono che ciò significhi ritornare finalmente a sinistra, dopo i cedimenti al «pensiero unico liberista». Ma attestarsi sul valore dell’uguaglianza (socioeconomica) in chiave essenzialmente morale (un valore inteso proprio in senso anticapitalistico), scalderà forse i cuori agli orfani di Berlinguer, ma può solo fare danni. L’economia richiede che prima si produca e poi si redistribuisca. Se redistribuisco senza preoccuparmi dello sviluppo faccio solo del moralismo e prima o poi finirò sicuramente con l’aggravare i problemi e persino le disuguaglianze. E questo è un punto cruciale per la vecchia cultura di sinistra che deve mettere finalmente da parte l’anticapitalismo residuo che con la socialdemocrazia non ha niente a che spartire.
Idee
Il referendum costituzionale, il jobs act, ecc., hanno dimostrato che nel centrosinistra non c’è una visione condivisa del futuro, di cosa debba essere una buona società. Basterebbe ricordare lo scontro che andò in scena all’Assemblea Nazionale del Partito Democratico che si svolse l’8 e 9 ottobre 2010 a Busto Arsizio (Va). Sulla base dei lavori del demografo Massimo Livi Bacci, avevo messo a punto un documento sull’immigrazione (presentato dall’area del partito che allora faceva capo a Veltroni, e sottoscritto da tutti i leader della corrente, da Beppe Fioroni a Paolo Gentiloni) che, per usare le parole di Maria Teresa Meli che sul Corriere della Sera ne aveva riassunto i contenuti, «non ricalca le parole d’ordine care alla sinistra, ma affronta il problema in maniera del tutto inedita per una forza politica come il Pd». L’ordine del giorno era chiaro fin dalla premessa: «Vogliamo assicurare attraverso l’introduzione di un sistema d’ammissione a punti che avremo gli immigrati di cui la nostra economia ha bisogno, ma non di più. Con il ritorno della crescita vogliamo vedere crescenti livelli di occupazione e salari crescenti, ma non crescente immigrazione». «Australia, Nuova Zelanda, Canada, Gran Bretagna e Danimarca – si leggeva nel testo presentato a Varese – hanno adottato strategie di questo tipo. Età, sesso, stato civile, istruzione, specializzazione, conoscenza della lingua, della cultura, dell’ordinamento del paese, si combinano in un punteggio, o valutazione, dell’ammissibilità dei candidati all’immigrazione. L’esito normale del processo di inclusione, in queste società è l’acquisizione della cittadinanza, e questo avviene per la maggioranza degli immigrati». Dunque, «si tratta di una politica migratoria selettiva: l’ammissibilità legata ad una valutazione delle caratteristiche degli immigrati», perché «venire, a ancor più restare in Italia, è un’ opportunità e non un diritto».
Ma non finisce qui. Il documento prevedeva anche un’altra proposta che rappresentava un’ulteriore novità per la tradizionale politica dell’immigrazione del Pd. «Riconosciamo inoltre – era scritto nel testo – che l’immigrazione può mettere pressione sulla disponibilità di abitazioni e di servizi pubblici delle nostre comunità, perciò dobbiamo costituire un Fondo Impatto Immigrazione pagato dalle contribuzioni degli immigrati per aiutare le aree locali». Anche in questo caso, una piccola rivoluzione per il Pd, mutuata dalla Gran Bretagna.
Ovviamente, l’approccio non era quello leghista e nell’ultima pagina vi era un paragrafo tutto dedicato ai diritti degli immigrati: «Poiché buona parte dell’immigrazione è di lungo periodo o permanente deve essere in grado di acquisire pieni diritti, politici e di cittadinanza. E le riforme devono riguardare lo snellimento delle procedure per ottenere la carta di soggiorno per “lungo residenti”; la concessione del voto amministrativo; l’accesso alla cittadinanza ai nati da residenti stranieri legalmente soggiornanti e ai minori cresciuti e formati in Italia».
“Oggi – concludeva Maria Teresa Meli – dopo una nottata di trattative in un’apposita commissione di lavoro, si saprà se il gruppo dirigente del Pd è disposto ad accettare la sfida sull’immigrazione lanciatagli dalla minoranza di Veltroni (tanto più che il documento è piaciuto anche a una parte della maggioranza interna e a una fetta degli amministratori locali del Nord), o se preferirà attestarsi sul documento elaborato da Livia Turco, in linea con i temi e gli slogan tradizionali della sinistra”. Sappiamo come è andata a finire.
Ora Nicola Zingaretti prova a riprendersi il Pd archiviando la stagione renziana nella quale la sinistra avrebbe «accettato il terreno del pensiero unico: mercato, meritocrazia, competizione, narcisismo, consumismo». Ma c’è da dubitare che il «ritorno a sinistra» e la stanca prospettiva di un centrosinistra vecchia maniera, quello dell’Ulivo e dell’Unione, possano aggiornarne il messaggio e superare i motivi di crisi evidenziati da Berman.
Siamo passati dal modo di produzione industriale a quello digitale, definitivamente. Quando cambia il modo di produzione cambia tutto. Cambiano i rapporti di produzione e di scambio e le forme del consumo; cambia il rapporto tra capitale e lavoro; le forme dell’organizzazione sociale e, ovviamente, le modalità della politica. Per questo dobbiamo ricostruire l’edificio partendo dai pilastri dell’edificio riformista: ordine liberale, interdipendenza, l’Europa, il nostro sistema di valori. Per questo, non abbiamo bisogno di facce nuove, abbiamo bisogno di teste nuove. Non abbiamo bisogno di nuovi interpreti delle vecchie idee abbiamo bisogno di idee nuove.
Già senatore del Partito democratico, membro della Commissione Esteri e della Commissione Politiche Ue, fa parte della presidenza di Libertàeguale. Parlamentare dal 2001 al 2018, è stato segretario regionale dei Ds del Friuli Venezia Giulia.