di Vittorio Ferla
I nodi vengono al pettine. Mentre in Italia il governo è in balia delle bugie e dei capricci infantili di Salvini e Di Maio, la Commissione europea vigila sul rispetto delle regole comuni, anche nell’interesse del nostro paese.
1. La lettera della Commissione europea
La lettera della Commissione europea è ormai nota a tutti. Dice che la manovra dei populisti nostrani mostra una deviazione “senza precedenti nella storia del Patto di stabilità” e profila “un non rispetto particolarmente serio con gli obblighi del Patto”. In sostanza, la Commissione segnala la completa inaffidabilità del governo gialloverde. E manifesta sconcerto per la sbruffoneria con la quale Lega e M5S hanno respinto i rilievi dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio.
Pertanto, dalla lettera della Commissione risalta il primo connotato del populismo di governo: l’adozione di un metodo antiliberale ovvero l’idea che la politica e lo Stato abbiano la prevalenza sul diritto e che la sovranità possa esercitarsi senza i limiti che le Costituzioni (quella nazionale e quella comunitaria) si sono date per garantire il corretto svolgimento della vita democratica, economica e sociale all’interno dei confini dell’Europa.
2. L’uso del bilancio pubblico per la redistribuzione spartitoria
Perché succede tutto questo? Perché l’obiettivo dei due alleati di governo, fin dalla redazione dei programmi elettorali, era sostanzialmente quello di usare il bilancio dello Stato per garantire la redistribuzione spartitoria delle risorse pubbliche a vantaggio delle corporazioni vezzeggiate in campagna elettorale. Una sorta di colossale voto di scambio costruito scientemente con una valanga di promesse insostenibili cavalcate nel nome degli interessi più diversi e contraddittori.
Emerge qui il secondo connotato del populismo di governo: l’idea che la spesa pubblica sia nella piena disponibilità della politica anche a costo di bruciare i risparmi privati, di moltiplicare il peso del debito sulle generazioni future, di ridurre il reale potere di acquisto dei salari. In questo, il governo gialloverde non soltanto non dimostra alcun segno di cambiamento rispetto alle abitudini peggiori della politica italiana, ma, viceversa, sembra incarnarne la caratteristica precipua. Basti ricordare l’esplosione del debito pubblico provocata negli anni ’70 e ’80 dal consociativismo spartitorio praticato dai partiti della Prima Repubblica, a partire dalla Democrazia Cristiana e dal Partito Comunista.
3. Sistema proporzionale e frammentazione partitica
E qui arriviamo al terzo passaggio cruciale: il peso del sistema istituzionale ed elettorale sul fenomeno della spesa pubblica.
La letteratura scientifica lo ha spiegato in più occasioni: nei sistemi parlamentari con legge elettorale proporzionale e alta frammentazione partitica, i governi di coalizione che si formano per accordo successivo alle elezioni sono portati a scaricare sul bilancio pubblico tutto il peso delle più varie promesse elettorali.
Il fatto è diventato particolarmente vero nel caso italiano nel quale rilevano due ulteriori elementi: dal lato della cultura politica, la tradizionale carenza di cultura liberale unita all’abitudine all’assistenzialismo pubblico presente in tutte le forze politiche, dalla sinistra massimalista alla destra sociale passando per il mondo cattolico; dal lato della contingenza politica, l’emersione – caso unico in Europa – di due forze populiste estreme, destinate inevitabilmente a saldarsi in un’alleanza perversa con lo scopo di vampirizzare le spoglie del bilancio pubblico.
Per difendere le risorse pubbliche dalla voracità dei partiti servirebbe insomma rilanciare le riforme istituzionali troppo presto rimosse.
4. Lega e M5S all’assalto del bilancio
Per quanto ridicole e grottesche, le vicende di questi giorni parlano chiaro. Com’era prevedibile abbiamo assistito alla gara tra i due partner di governo per allargare i cordoni della borsa.
Il primo obiettivo raggiunto era comune: l’abbassamento dell’età pensionabile che sarà realizzata alle spalle dei giovani italiani con buona pace dell’equilibrio conti pubblici garantiti dalla legge Fornero prima e dal ‘sentiero stretto’ di Padoan.
Il primo round è andato a vantaggio del M5S, guidato al governo dal vicepremier Di Maio: scompare la flat tax, le tasse non si abbassano, il mercato del lavoro aumenta le rigidità, si finanzia una misura assistenziale come il reddito di cittadinanza con la conseguenza di aumentare la spesa improduttiva. Le conseguenze? Lo spread schizza a 327 punti e il costo del denaro aumenterà per imprenditori, famiglie e risparmiatori.
Il secondo round, però, se lo aggiudica Salvini. Non tanto per il taglio delle spese per la gestione dell’immigrazione, quanto piuttosto per l’odioso condono che serve per dare agli evasori fiscali un contentino, non potendo ancora osare un abbassamento generalizzato delle tasse. Da qui le patetiche e infantili contorsioni del M5S (e la tragicomica figuraccia di Di Maio a Porta a Porta), preoccupato di perdere la faccia con il proprio elettorato, educato da anni al moralismo.
Infine, l’insieme di queste misure colloca l’Italia sull’orlo del burrone.
5. Il M5S, alleato di sinistra?
Di fronte a tutto ciò, resta aperta una questione dirimente. Per una parte larga della sinistra tradizionale – dai nostalgici di Leu, alle correnti antirenziane del Pd al veterosindacalismo della Cgil – questa manovra scriteriata, segnata in modo più evidente dall’impronta del populismo assistenzialista del M5S è percepita, in fondo, come una manovra di sinistra, alla quale manca soltanto la classica ciliegina sulla torta della tassa anticapitalista sui patrimoni o sulle case.
La divaricazione rispetto alla sinistra liberale e riformista si gioca proprio su questo crinale.
Come tutti ricordano, nei mesi successivi alle elezioni pezzi del Pd avevano fatto dei goffi tentativi di dialogo con i Cinquestelle, probabilmente a partire da questo comune sguardo a ritroso.
Oggi, dopo le prove di questi mesi, l’inaffidabilità del Movimento è ormai chiara: davvero difficile sostenere che con questa classe dirigente improvvisata, superficiale, inetta, grottesca (e telecomandata da una società privata) sia possibile concludere accordi seri e gestire insieme le politiche pubbliche. Insomma, non si possono “romanizzare i barbari”.
6. Le riforme per modernizzare il paese
Resta, però, aperta la domanda sul programma politico. Davvero la sinistra tradizionale vuole attestarsi sull’approccio massimalista, sulle misure assistenzialistiche e, in generale, su quelle politiche che – forse – potevano funzionare nel secolo scorso, ma che oggi non hanno più alcun senso per fronteggiare le trasformazioni economiche e sociali di questo tempo?
Un esempio per tutti è il reddito di cittadinanza: un conto è riconoscere la necessità di una misura finale di sostegno per soggetti in condizioni di radicale disagio nel quadro di una serie di misure che puntano allo sviluppo e alla produttività a partire dall’investimento sul capitale umano (specie nelle regioni del Sud); altra cosa è accontentarsi di una società passivizzata fatta di nullafacenti marginalizzati che vivono di sussidi pubblici.
Ancora una volta servirebbe riscoprire le ragioni profonde che hanno portato alla nascita del Partito Democratico, riscoprendo la genuina ispirazione liberaldemocratica di quell’idea. E poi puntare su cambiamenti radicali fondati su politiche riformiste: dire sì all’Europa costruendo una politica di bilancio europea e rafforzando le politiche pubbliche comunitarie in partnership con Francia e Germania, dare spazio alla concorrenza e alla forza innovativa delle imprese, conciliare i premi ai meritevoli con le giuste aspirazioni di chi soffre il disagio, integrare bene e selettivamente gli immigrati per evitare che siano percepiti come una minaccia, ridare fiato allo sviluppo con una politica di crescita economica e di ammodernamento delle infrastrutture fisiche e digitali, dire sì senza mal di pancia alla scienza, alla tecnologia e al progresso. In una parola serve modernizzare il nostro paese, non certo ritornare al piccolo mondo antico della sinistra novecentesca, magari con il sostegno del massimalismo postmoderno dei Cinquestelle.
Giornalista, direttore di Libertà Eguale e della Fondazione PER. Collaboratore de ‘Linkiesta’ e de ‘Il Riformista’, si è occupato di comunicazione e media relations presso l’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale del Lazio. Direttore responsabile di Labsus, è stato componente della Direzione nazionale di Cittadinanzattiva dal 2000 al 2016 e, precedentemente, vicepresidente nazionale della Fuci. Ha collaborato con Cristiano sociali news, L’Unità, Il Sole 24 Ore, Europa, Critica Liberale e Democratica. Ha curato il volume “Riformisti. L’Italia che cambia e la nuova sovranità dell’Europa” (Rubbettino 2018).