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di Pietro Ichino

 

Alla fine del secolo scorso l’Italia pensava di essere guarita dalla malattia del terrorismo; che cosa significò, nel 1999 e nel 2002, il riacutizzarsi improvviso di quella malattia, maniacalmente focalizzato contro i giuslavoristi

 

Era un giorno già segnato a lutto per l’assassinio del magistrato Guido Galli, compiuto da un commando di Prima Linea ventidue anni prima, alla vigilia di primavera del 1980, sulla porta dell’aula 309 dell’Università statale nella quale lui aveva appena tenuto una lezione. Come ogni anno, la mattina di martedì 19 marzo 2002 lo avevamo ricordato nella stessa aula, che era stata a lui dedicata. Il ricordo di quel giorno mi è rimasto impresso a fuoco nella memoria.

Alle otto di sera mi chiamò il direttore del Corriere della Sera per darmi, sconvolto, la notizia dell’assassinio di Marco Biagi e per chiedermi – anzi, impormi, poiché mi mostravo molto riluttante – di scrivere entro due ore un commento adeguato all’enormità dell’evento.

Lo scrissi piangendo.

Piangevo di dolore per sua moglie e i suoi due figli, per l’amico con cui avevo condiviso strettamente fino a quel giorno l’impegno didattico (a Milano lui veniva tutti i martedì per insegnare il Diritto comunitario del lavoro nel Master che dirigevo alla Statale), con cui discutevo da anni sul modo migliore di ammodernare il mercato del lavoro italiano armonizzandone i servizi e le regole rispetto agli altri maggiori Paesi europei.

Nessuno studioso italiano conosceva gli ordinamenti degli altri Paesi e il diritto europeo come lui, che da molti anni rappresentava il nostro Governo negli organismi dell’UE preposti alle politiche sociali e del lavoro.

Ma quella sera, scrivendo il pezzo chiestomi dal Corriere, piangevo anche per l’abisso di barbarie che minacciava di tornare a travolgere il nostro Paese: dopo un decennio in cui era parso che fossimo guariti dalla malattia del terrorismo, nel 1999 era stato assassinato Massimo D’Antona, reo di collaborare con il ministro dei Trasporti nel tentativo di riportare un po’ di ragionevolezza nelle relazioni sindacali del settore del trasporto aereo, che parevano impazzite.

Tanto Massimo quanto Marco, sia pure in modo diverso, ciascuno con il suo patrimonio politico-culturale, ciascuno nel campo in cui gli era stato chiesto di collaborare con il Governo, si proponevano di riallineare il nostro Paese rispetto a un alto standard europeo di civiltà del lavoro.

Non mi vergogno a dirlo: quella sera un altro motivo del mio sconvolgimento era il sentire le pallottole che avevano ucciso Marco sulla porta di casa come destinate anche a me.

Dopo l’attentato di tre anni prima, l’allora ministro dei Trasporti Bersani mi aveva chiesto di sostituire Massimo D’Antona nel consiglio di amministrazione dell’Enav, l’ente che gestiva gli uomini-radar, per proseguire il suo lavoro. Ora l’uccisione di Marco era l’avviso che gli assassini erano ancora in circolazione, pronti a colpire di nuovo.

Il loro obiettivo era “far scoppiare le contraddizioni” del sistema; per questo ce l’avevano con i giuslavoristi il cui obiettivo era invece promuovere la cooperazione tra buona impresa e buon lavoro con un sistema di relazioni sindacali ben funzionante.

Nel marzo 2003 uno dei brigatisti autori di quei due attentati morì in un conflitto a fuoco e un’altra che era con lui, Desdemona Lioce, venne arrestata. Qualche anno dopo un nuovo gruppo di brigatisti avrebbe preso di mira me; ma l’attentato sarebbe stato sventato da una protezione efficace, che invece a Marco Biagi era stata incredibilmente tolta nel novembre 2001, proprio nel momento in cui le minacce contro di lui si erano fatte più gravi.

Anche chi prese quella decisione sciagurata ha la sua morte sulla coscienza.

***

Articolo pubblicato dal settimanale Oggi il 17 marzo 2022, a vent’anni dall’attentato nel quale Marco Biagi venne assassinato sulla porta di casa, al ritorno da una giornata di lavoro in università – In argomento v. anche l’intervento di Ichino svolto in Senato il 19 marzo 2015, l’intervista del 2014 Sulla riapertura del procedimento penale per il rifiuto della scorta a Marco Biagi e l’intervento durante la celebrazione svoltasi nella basilica di S. Martino nel quinto anniversario della sua morte: Il dovere di non essere faziosi

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