di Giovanni Cominelli
D’Alema e il “necessario” ritorno a Marx
L’Assemblea di rifondazione del PD a Bologna conferma la regressione culturale del partito che fu già comunista. L’analisi egemone è pur sempre quella di D’Alema: occorre tornare a Marx. La sinistra è stata succube del liberismo. Con ciò ha perso i legami con il proprio popolo; peggio, lo ha regalato alla destra peggiore. Tornare alle radici: questo lo slogan. E non importa se in questa anabasi del pentimento, si perdono per strada i compagni di strada del socialismo liberale e del cattolicesimo liberale. Esiste, in Italia, una consistente ridotta ideologica, in cui si sono rinchiusi i veterani di antiche battaglie. Il PD ha deciso di rappresentarla.
Il PCI è sempre stato “comunista” dai tempi di Bordiga, Gramsci, Grieco, Berti, Togliatti, Longo, Berlinguer, Natta, fino a Occhetto. In realtà, il partito togliattiano aveva rinunciato, ancorché obtorto collo, al nocciolo duro del comunismo – la dittatura del partito unico e la nazionalizzazione dei beni di produzione – quando nel corso della Conferenza di Yalta – dal 4 all’11 febbraio 1945 – Stalin e Churchill avevano collocato l’Italia nel blocco occidentale. Tuttavia i comunisti continuarono a mantenere l’idea di un superamento del sistema della proprietà privata e della democrazia liberale, in nome della “democrazia progressiva”, poi “democrazia sostanziale”, e delle “riforme di struttura”.
Il legame con l’esperimento sovietico restò saldo fino al XVIII congresso del PCI del 18-22 marzo 1989, convocato all’insegna delle Tesi sul “comunismo democratico”, secondo la mite illusione di Gorbaciov-Occhetto. Ma il 9 novembre del 1989 il calabrone, cui Togliatti aveva paragonato il PCI, si schiantò al suolo. Perché non abbracciare allora il socialismo democratico? Lo aveva già spiegato per tempo Enrico Berlinguer a Eugenio Scalfari, nell’intervista del 28 luglio 1981: “la socialdemocrazia, quella seria si è sempre molto preoccupata degli operai, dei lavoratori sindacalmente organizzati e poco o nulla degli emarginati, dei sottoproletari, delle donne… Per risolvere tali problemi non bastano più il riformismo e l’assistenzialismo: ci vuole un profondo rinnovamento di indirizzi e di assetto del sistema”.
Il rimprovero al socialismo democratico era quello di avere accettato i vincoli del sistema capitalistico, dentro i quali si svolgeva un’ordinata dialettica capitale-lavoro, all’insegna della Mitbestimmung, la cogestione della politica economica. Era quello che R. Dahrendorf aveva definito “il patto socialdemocratico”: promuoveva creazione di ricchezza e Welfare. Poiché, però, il PCI non aveva nessuna idea sul come andare “oltre” il sistema della produzione capitalistica, rinunciò di conseguenza ad alimentare il protagonismo di classe degli operai e si gettò, già nel corso degli anni ’80, sulla difesa dei loro diritti – vedasi il referendum sulla scala mobile – e su quelli degli ultimi.
Da partito della classe operaia a “partito radicale di massa”, come intravidero per tempo Augusto Del Noce e Baget Bozzo. Quanto alla politica economico-sociale, si ridusse alla rivendicazione di assistenza e di redistribuzione, nonostante i tentativi di Amendola e di Napolitano di una riflessione più “strutturale”. Così anche il PCI partecipò, dall’opposizione, alla gara per la dilatazione del debito pubblico. Il fallimento conclamato del comunismo ha spinto definitivamente il PCI-PDS-DS-PD ad abbandonare i temi della produzione e dello sviluppo per competere in assistenzialismo, in debito pubblico, in populismo e in decrescita con una destra, che a sua volta è passata dal – più proclamato che praticato – liberismo filocapitalista al protezionismo assistenzialista.
La sinistra e lo sviluppo delle forze produttive
Per quanto concerne la sinistra, le sue intenzioni di una nuova radicalità c’entrano assai poco con Marx e con l’intera tradizione del Movimento operaio.
Per Marx ciò che identifica la sinistra, rispetto alla destra liberal-capitalistica, è la sua superiore capacità di sviluppare le forze produttive. La classe operaia è antagonista del sistema capitalistico non soltanto perché sfruttata, ma soprattutto perché è essa stessa una potente forza produttiva ed è portatrice di un’istanza di sviluppo delle forze produttive, che i rapporti capitalistici di produzione, dopo aver funzionato in una prima fase come motore di crescita – per la quale Marx tesse l’elogio della borghesia nel Manifesto del ’48 – tendono a bloccare, fino al crollo finale, secondo la dottrina marxiana. Le forze produttive: il sapere, la scienza – ciò che Marx chiama “la coscienza enorme”- l’uomo stesso, la sua incomprimibile libertà. Rispetto al modo di produzione capitalistico, quello comunista prevede uno sviluppo di quantità e di qualità tali da generare quel tipo di società futura, che da Fra’ Gioachino da Fiore fino a Karl Marx è stata descritta nei termini utopico-sognanti di un umanesimo omnilaterale e plenario.
Ora, il sistema sovietico è fallito. E non perché era debole sui diritti umani e civili, ma perché non ha retto la sfida dello sviluppo delle forze produttive con il sistema capitalistico. Non ha tenuto conto, in primo luogo, della natura della forza produttiva umana. Viceversa, il sistema capitalistico, in tutte le sue varianti – da quella americana a quella renana, – e con ingenti trasformazioni e gravi contraddizioni, “ha i secoli contati”, come ha scritto Giorgio Ruffolo. Se non è il dernier cri della civiltà umana, continua ad essere per ora l’unico campo di sviluppo del forze produttive e del progresso umano. Avendo compreso ciò, i socialdemocratici del secondo Novecento avevano siglato il succitato patto con i rispettivi sistemi capitalistici nazionali: la pecora capitalista pensava a nutrirsi e a far crescere la lana, lo Stato socialdemocratico avrebbe tosato, con moderazione, la docile pecora. Quel patto è saltato, perché la pecora è diventata indocile e capricciosa. Fuor di metafora, il capitalismo si è globalizzato e finanziarizzato, mentre la politica, anche quella socialdemocratica, è fatalmente rimasta nazionale.
Lo sviluppo della civiltà umana
Resta tuttavia la grande lezione di Marx – al netto della “riserva escatologica” del comunismo, che si è esaurita – per la sinistra di oggi: lo sviluppo della civiltà umana, lo sviluppo umano – che noi oggi tentiamo di misurare con lo Human Development Index – la soddisfazione dei bisogni primari, l’uscita dalla fame, dalla miseria, dalle malattie sono possibili soltanto se siamo in grado di sviluppare le forze produttive: educazione e formazione dell’uomo, del cittadino, del lavoratore, sapere scientifico e tecnologico, industria 4.0, Intelligenza Artificiale, infrastrutture, trasporti veloci, 5G… Costruire le condizioni sociali, politiche, istituzionali per tale sviluppo e procedere rapidamente con decisione alla riforme necessarie per tali condizioni è il compito degli anni a venire.
La sinistra non può limitarsi a riportare a galla i sommersi della globalizzazione, ad asciugare le lacrime degli ultimi: deve farsi carico dello sviluppo. Se solo attraverso il lavoro la persona dà senso alla propria collocazione nella società e dà il proprio contributo alla storia del mondo, esso sboccia dalla produzione e da tutto ciò che si muove attorno a questo processo. L’esperienza sindacale insegna che la difesa dei diritti dei lavoratori e degli emarginati e degli ultimi è più efficace, quando la sinistra fa politiche di governo che aprono la strada allo sviluppo e alla creazione di ricchezza. Tornare alle radici? Il barbuto sociologo di Treviri risponderebbe: “Essere radicali significa andare alla radice. Ora, la radice è l’uomo stesso”.
(Pubblicato su www.santalessandro.org il 23 novembre 2019)
E’ stato consigliere comunale a Milano e consigliere regionale in Lombardia, responsabile scuola di Pci, Pds, Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola, membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi e del CdA dell’Indire. Ha collaborato con Tempi, il Riformista, il Foglio, l’ Avvenire, Sole 24 Ore. Scrive su Nuova secondaria ed è editorialista politico di www.santalessandro.org, settimanale on line della Diocesi di Bergamo.
Ha scritto “La caduta del vento leggero”, Guerini 2008, “La scuola è finita…forse”, Guerini 2009, “Scuola: rompere il muro fra aula e vita”, BQ 2016 ed ha curato “Che fine ha fatto il ’68. Fu vera gloria?”, Guerini 2018.