di Giovanni Cominelli
A proposito del secondo turno delle elezioni presidenziali francesi, Vincent Trémolet de Villers, editorialista del Figaro, ha scritto l’11 aprile di “ténaille de la colère”, che stringe Macron: da una parte la destra estrema di Marine Le Pen, dall’altra la sinistra radicale di Mélenchon. Non è un fenomeno solo francese né solo europeo.
La collera, il risentimento, lo spirito di vendetta, l’odio, la paura, condensati in una pulsione antisistema, tutto ciò che scorre quotidianamente e che viene normalmente “refoulé” nel sottosuolo degli individui, si è raccolto in un fiume sotterraneo così potente da rompere la crosta sociale e da scorrere in superficie nelle società occidentali.
Il cognome politico di queste manifestazioni è variabile da un decennio a questa parte: Grillo, Trump, Salvini, Meloni, Le Pen, Orban… I sistemi partitici e istituzionali sono stati allagati e semi-sommersi. Il rapporto tra “ira e tempo” è stato indagato e descritto da Peter Sloterdijk in un saggio omonimo del 2019.
Secondo il filosofo tedesco, i partiti e i grandi movimenti ideologici del ‘900 hanno funzionato come “banche del risentimento”, con il compito di accumulare e di tenere sotto controllo l’energia selvaggia dell’ira, che zampilla costantemente dalla società civile. La crisi delle fedi, dei partiti e delle relative ideologie ora libera gli odi e i risentimenti: “Venute meno le principali istanze capaci di convogliare tale risentimento collettivo verso utopie rivoluzionarie o verso l’Aldilà delle religioni monoteiste, nulla sembra poter contenere l’ondata di conflitto che si manifesta negli scontri di piazza, nel disagio delle periferie urbane, nelle forme di emarginazione sociale, nelle organizzazioni terroristiche. Né si prospettano nuovi elementi capaci di produrre un’idea di mondo che si faccia progetto”.
Se la pandemia 2020-22 ha ulteriormente ingrossato l’esondazione dei sentimenti selvaggi, la guerra scoppiata in Europa il 24 febbraio può segnare una brusca inversione di tendenza e ricondurre le passioni feroci dentro l’alveo di “un’idea di mondo che si faccia progetto”?
Intanto, la guerra sta svolgendo una funzione radicale di pars destruens delle scontate convinzioni, delle troppe inerzie e stanchezze di valori, che si sono depositate come polvere sulle coscienze dell’Occidente. Essa ci sta brutalmente riconducendo ai dilemmi originari della convivenza tra gli uomini: mondo, società e stati fondati sul Diritto o sulla Forza? Società aperte o società chiuse? Pace o guerra?
A queste domande le generazioni occidentali del dopo-seconda guerra mondiale avevano dato una catena di risposte culturali (le Costituzioni nazionali e la Carta dei Diritti del 1948), politico-istituzionali (sistemi dei partiti democratici, conservatori o socialdemocratici), internazionali (l’Onu, la Nato, l’Unione europea). Era un progetto di mondo “occidentale”, che si proponeva di inglobare progressivamente l’intero pianeta, con la forza della moral suasion. Le forze ostili a tale progetto erano state oggetto di un efficace containment.
Ora, la struttura del mondo che si è delineata e che la guerra ha reso visibile nelle sue nervature essenziali mostra che il progetto democratico planetario dell’Occidente è fallito. L’impotenza dell’ONU ne è solo il primo effetto.
Da questo fallimento planetario è necessario ripartire per un nuovo progetto.
La debolezza egemonica del progetto democratico non è il frutto di un attacco esterno, ma l’effetto di una crisi culturale interna al mondo occidentale. Del sacro trinomio fondativo – liberté, égalité, fraternité – dell’Occidente la libertà è certamente l’anello originario. Ma “originario” non significa spontaneamente acquisito, interpretato e vissuto dalle generazioni, che si sono succedute, dopo i Baby boomer, e che la demografia segna per comodità con lettere dell’alfabeto: X (1965-1979), Y o “Millennial” (anni 1980-1995), Z (1996-2009); Alpha (anni 2010-2025).
Si impone, dunque, una riflessione autocritica sull’educazione occidentale alle libertà.
La libertà è stata progressivamente concepita, mano a mano che ci si allontanava dalla guerra, insegnata e praticata come diritto, come condizione trascendentale di ogni diritto, come diritto ad ogni altro diritto, senza limiti. Concepita come onnipotenza dell’individuo, senza finitudine e senza trascendenza. E’ andato quasi del tutto perduto il lato della responsabilità verso l’altro che essa esige, perché possa porsi ambiziosamente a fondamento delle società aperte. E perciò si sono allentati i legami con i due anelli successivi: l’eguaglianza e la fraternità. Se la libertà non viene egualmente distribuita e partecipata, se viene vissuta come un privilegio di pochi, se non viene costruita collettivamente, nessuna meraviglia che si generino fratture tra chi ne ha un pieno accesso e chi è o si percepisce come escluso.
Il mondo che si dispiega, tutt’oggi, davanti a quella che viene ultimamente definita la Generazione C – perché perennemente “connessa” ad un device – è una sorta di Eden dello sviluppo, dei consumi e dell’abbondanza, quale descritto dal profeta Isaia: “il lupo abiterà con l’agnello e il leopardo si sdraierà accanto al capretto…e il lattante giocherà sul nido della vipera…”. E così la Storia appare alle giovani generazioni come un divertissement da vivere con leggerezza e la pace più come diritto naturale che come dovere da esercitare e come edificio da costruire.
La guerra in Europa impone alle generazioni educanti di costruire un’altra narrazione destinata a quelle più giovani, più autentica, più drammatica, più impegnativa. L’educazione protettiva che le generazioni adulte continuano a proiettare, in famiglia e a scuola, sui loro figli per tenerli al riparo dal male del mondo prepara loro un avvenire oscuro di sottomissione alla potenze del mondo, non necessariamente democratiche.
Fa capolino qui in Europa la filosofia del “Meglio Russi che morti”. Giacché la libertà e le libertà non sono un dono naturale, sono una costruzione sociale, sono un progetto, una conquista, una fatica. Dalla quale le generazioni adulte del dopoguerra si sono credute progressivamente dispensate. Tale “fortuna” non toccherà ai loro figli.
E’ stato consigliere comunale a Milano e consigliere regionale in Lombardia, responsabile scuola di Pci, Pds, Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola, membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi e del CdA dell’Indire. Ha collaborato con Tempi, il Riformista, il Foglio, l’ Avvenire, Sole 24 Ore. Scrive su Nuova secondaria ed è editorialista politico di www.santalessandro.org, settimanale on line della Diocesi di Bergamo.
Ha scritto “La caduta del vento leggero”, Guerini 2008, “La scuola è finita…forse”, Guerini 2009, “Scuola: rompere il muro fra aula e vita”, BQ 2016 ed ha curato “Che fine ha fatto il ’68. Fu vera gloria?”, Guerini 2018.