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di Paolo Pombeni

 

Le ripetute uscite di Zingaretti sulla assoluta opportunità per l’Italia di ricorrere al MES sono davvero una svolta nel quadro politico attuale? E’ la domanda che non possiamo evitare di porci, visto che fino a poco tempo fa era sembrato che il PD assecondasse la politica di Conte del troncare e sopire. In effetti il clima è diventato piuttosto caldo e si potrebbe dire, parafrasando una celebre battuta da film, che adesso il gioco si fa duro. Che poi, continuando nella citazione, questo sia il momento in cui i duri cominciano a giocare lo vedremo: fino ad ora di duri veri non se ne sono visti in giro.

E’ comunque un fatto che Zingaretti ha battuto un colpo e si è trattato di un colpo forte. Perché l’abbia fatto, può prestarsi a diverse interpretazioni. La più banale è che si sia stancato dell’infantilismo dei Cinque Stelle che pretendono di condizionare la politica italiana alla loro incapacità di gestire la crisi interna al movimento. Ci sarà sicuramente anche questo, ma dubitiamo che sia la ragione principale, perché avrebbe potuto accorgersene anche prima. E’ più plausibile che il segretario del PD si stia rendendo conto che i Cinque Stelle chiedono sempre attenzione alle loro problematiche, ma non danno niente in cambio. Anche il partito del Nazareno ha una sua immagine e credibilità da salvare e Zingaretti e il suo gruppo in particolare sono sotto pressione per la loro scarsa capacità di imporre una linea, ma M5S non collabora su nessun dossier, perché ha sempre una sua qualche bandierina da difendere o un suo interesse elettorale da salvaguardare.

Lo si vede benissimo da come viene affrontata la prova elettorale d’autunno. Il PD è stato pronto a sostenere anche scempiaggini come le ire populiste contro gli ex senatori che non accettano decisioni mal congegnate sui vitalizi del passato, sorvolando sul fatto che i grillini le chiamino “malloppo” (cioè frutto di ruberie), mentre i Cinque Stelle non sono disposti ad alleanze elettorali a livello locale col partito con cui sono alleati a Roma (salvo forse il caso della Puglia, dove, guarda caso, il candidato PD è di fatto un para-grillino). Eppure il rischio che la tornata d’autunno si chiuda con un bilancio di pesanti perdite per le forze al governo del paese non è affatto teorico.

Connessa con tutto questo c’è però quella che a noi sembra la ragione fondamentale dell’impennata di Zingaretti e compagni: la perdita di credibilità come forza di governo presso i ceti dirigenti della società civile ed economica. Non che quelli si stiano orientando altrove, perché c’è poco da scegliere: le altre forze politiche numericamente consistenti sono tutte poco affidabili ( da questo punto di vista anche Lega e FdI fanno di tutto per essere poco credibili presso quei ceti), quelle che magari potrebbero proporsi come portatrici di proposte ragionevoli sono elettoralmente poco consistenti (e alcune anche a rischio di sparire se passerà una nuova legge elettorale con sbarramento al 5%). Tuttavia al momento il distacco dei ceti dirigenti del paese dalla politica “romana” li fa rivolgere in maniera ondivaga e frammentata ad una pluralità di soggetti che possono contribuire a raggiungere qualche obiettivo intermedio, ma che non hanno la forza e la collocazione per implementare una politica nazionale. Parliamo di poteri locali, di sedi di decisione tecnica, di mezzi di comunicazione in grado di condizionare l’andamento della politica: sono scelte che non aiutano il compattamento del paese.

Sino a ieri molti, incluso il gruppo dirigente del PD o almeno una sua parte, avevano pensato che Giuseppe Conte potesse essere la chiave di volta del sistema, quella che trasformava due spinte contrapposte che potevano provocare un crollo, in una forza che lo sorreggeva. Si pensava in particolare che l’attuale premier sarebbe stato in grado di essere l’educatore dei Cinque Stelle, trasformandoli da forza scomposta più o meno antisistema, in una nuova classe dirigente. Ci si è illusi perché qualche esponente Cinque Stelle ha mostrato delle capacità politiche, perché molti di loro hanno lasciato emergere vocazioni “governiste”, ma al dunque nessuno ha potuto scindere il suo legame con il retroterra demagogico-populista da cui veniva. E’ un fenomeno tipico di questi movimenti, che per fare il cosiddetto salto di qualità avrebbero bisogno di un leader carismatico indiscusso capace davvero di intestarsi una “fase 2” del movimento piegandolo ad essa. Però non c’è e non sono tali né Beppe Grillo né Casaleggio jr.

Certo non lo è Conte, il quale rifugge da qualsiasi confronto aperto con i Cinque Stelle, ma che non è neppure capace di prendere di petto il PD: media rinviando, e rinvia mediando, cioè, detta come va detta, pesta l’acqua in un mortaio. Tuttavia anche lui ha dovuto arrendersi all’incombere della svolta ed ha preso posizione col solito messaggio via social annunciando l’avvio a soluzione di alcuni dossier su cui è incalzato dal PD. Peraltro al momento l’unica cosa che sembra avere un contorno abbastanza preciso è la nomina dei vertici per la nuova compagnia Alitalia, non proprio il tema più difficile da affrontare visto che tutti si sono arresi alla solita logica del salvataggio a spese dei contribuenti. Niente invece sul dossier giustizia, vaghezze su quello Ilva, sostanziale nebbia su quello Autostrade, per dire dei primi che vengono alla mente.

Il fatto è che la situazione nella maggioranza sta sfuggendo di mano. Zingaretti ha piantato le sue insegne sul campo di battaglia, M5S ha risposto schierando a testuggine le sue truppe, sicché adesso non sarà semplice rimandare i combattenti a riposo. Conte non sa come fare e quelli interessati a far saltare la situazione, vuoi perché sperano di guadagnarci, vuoi perché non ne possono più di questa palude stagnante, crescono in continuazione.

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