Intervista a Enrico Morando
a cura di Umberto De Giovannangeli (L’Unità)
1) A colpi di maggioranza parlamentare, il governo ha deciso di rinviare a settembre la discussione sul salario minimo. Ma la povertà non va in vacanza.
Non credo che il problema sia la decisione di rinviare a settembre la discussione sul salario minimo. Se questo tempo venisse usato -soprattutto dal Governo- per formulare meglio le soluzioni e per coinvolgere parti sociali e competenze, sarebbe un bene per tutti: bisogna fare presto e bisogna fare bene.Tenendo conto che il salario minimo per legge serve per ridurre le dimensioni del “lavoro povero“, ma non è l’unica misura necessaria per conseguire questo obiettivo: se lavoro solo tre ore al giorno, anche se me le pagano nove euro l’ora, resto un lavoratore poverissimo. Certo, se il Governo -come fa il ministro Tajani- si limiterà a ripetere il suo no, con motivazioni speciose, sarà stato tempo perso. Ma credo che la Presidente del Consiglio abbia ben compreso che non le conviene limitarsi ad alzare il muro della maggioranza di cui dispone per respingere l’ipotesi stessa dell’introduzione per legge del salario minimo: il tema è serio e avvertito come tale dalla maggioranza degli italiani. L’Italia è uno dei pochi Paesi che non ha una legge sul salario minimo. Le opposizioni fanno finalmente sul serio… Se Meloni si limitasse al no, andrebbe in difficoltà.
2) Molti hanno scritto che è la prima volta…
Non è esatto. È la seconda. La prima è stata la proposta di legge per la ratifica del nuovo MES presentata dal PD. Meloni e la sua maggioranza -incapaci di votare contro, ma impediti a votare a favore dalla marea di sciocchezze dette nel passato-hanno fatto ricorso alla soluzione per loro più umiliante: scappare dal Parlamento. Ma non potranno sfuggire per sempre. A settembre il tema si riproporrà. Tornando al salario minimo e al rinvio a settembre, persino la proposta di coinvolgere il CNEL potrebbe tornare utile: ora il Governo l’ha usata per prendere tempo. Ma, guardando alle soluzioni adottate in altri Paesi europei -la Germania, in particolare-, si potrebbe ragionare così: il Parlamento fa il suo mestiere e stabilisce per legge che l’Italia adotta il salario minimo, di cui, sempre per legge, stabilisce le caratteristiche fondamentali e le modalità di applicazione. Per la precisa determinazione del quantum, ogni due-tre anni, la Germania fa ricorso ad una Commissione, con la partecipazione delle forze sociali. In Italia, questa Commissione c’è già: è il CNEL. Far decidere al CNEL se in Italia ci deve essere il salario minimo oppure no e quali caratteristiche deve avere, sarebbe assurdo. Usare il CNEL come sede tecnica è invece ragionevole.
3)Attorno al salario minimo le opposizioni sembrano aver trovato, almeno a livello parlamentare, una unità d’intenti. E’ un buon inizio?
È un ottimo inizio. Non solo perché, di fatto, l’iniziativa è stata presa da tutta l’opposizione, ma soprattutto perché essa si è sviluppata attorno ad un tema fondamentale, avvertito come tale dalla maggioranza della popolazione, come è quello del lavoro povero; si è organizzata attorno ad un disegno di legge, di cui si è imposta la discussione in Parlamento; si è lavorato per imporre il tema nel discorso pubblico; si è molto valorizzato il fatto incontestabile che-al di là delle soluzioni tecniche adottate da ciascun Paese- la scelta di avere una legge sul salario minimo è una scelta pienamente “europea“, che aiuta il processo di integrazione. Aldilà del fatto -certo non irrilevante, ma non decisivo- che nel caso della ratifica del MES il Movimento Cinque Stelle non ha voluto aderire all’iniziativa del PD e delle altre opposizioni, è lo stesso schema di iniziativa adottato per il MES: un problema reale, che coinvolge l’interesse dell’intero Paese, in un orizzonte europeista; una proposta chiara, fatta valere in Parlamento e nel discorso pubblico; un lavoro costante e incalzante sulle contraddizioni del Governo Meloni. È uno schema che deve essere adottato su tutti i terreni, potenzialmente vincente: perché mette in difficoltà il Governo, impegnandolo a soluzioni concrete su problemi avvertiti come tali dalla maggioranza degli italiani. E perché crea le condizioni per la costruzione, nel tempo, di una credibile alternativa di governo al destra-centro. Abbiamo usato questo schema per due volte. E per due volte abbiamo avuto risultati positivi. Non è accaduto altrettanto quando abbiamo riconosciuto priorità a temi identitari, o abbiamo ceduto a tentazioni populiste: è il caso del giudizio sulla politica monetaria e dell’azione di contrasto all’inflazione.
4) Può spiegare meglio questo suo giudizio?
È presto fatto: da mesi, tutti i governanti italiani -da Meloni in giù- coprono di contumelie la BCE per l’aumento dei tassi di interesse. Il vice Presidente del Consiglio italiano è arrivato al punto di chiedere: “Lagarde ha un mutuo a tasso variabile?“. È lo schema classico del populismo: un problema reale (i prezzi che salgono); un colpevole da additare al popolo (giustamente) infuriato; una soluzione tanto farlocca (se l’inflazione sale, la banca centrale dovrebbe lasciare a zero il tasso di interesse?), quanto “facile”, ed il gioco è fatto. Salvo poi organizzare (è cosa di questi giorni) un profluvio di dichiarazioni (la migliore, quella di Malan, capogruppo parlamentare: “il Governo precedente ci ha lasciato l’inflazione all’11,8%. Ora è al 5,9: dimezzata. E andiamo avanti“), volte ad esaltare i meriti del Governo Meloni per un’inflazione che finalmente cala (forse anche per via delle scelte BCE?). Perché possono sperare di farla franca, pretendendo di raggirare tutti gli italiani, senza alcuna reazione da parte delle opposizioni? Perché, quando era tempo, tutti -dai partiti dell’opposizione fino a Confindustria, passando per i Sindacati dei lavoratori- hanno mostrato di condividere la campagna anti BCE scatenata dal Governo.
5) Sta dicendo che bisognava applaudire Lagarde?
Sto dicendo che bisognava raccomandare prudenza nelle decisioni di rialzo, ma riconoscendo che se l’inflazione sale vertiginosamente -come stava succedendo- la Banca centrale non può che agire di conseguenza. E sollecitando gli altri attoriGoverno e Autorità comunitarie- a fornire all’azione di contrasto dell’inflazione il contributo che può venire dalla politica fiscale ed economica. Non è solo cosa dei governi, nazionali e comunitario. C’entrano anche le forze sociali. I dati -italiani ed europei- dimostrano che siamo passati da un’inflazione da offerta ad un’inflazione da profitti, perché dopo la pandemiavinta anche grazie a politiche fiscali e monetarie espansive- il trasferimento sui prezzi dell’aumento degli energetici è stato molto rapido, da parte delle imprese. Non è “colpa“ di qualcuno. Ma è un fatto. Che ne ha provocato un altro: la riduzione dei salari reali. Se è così, allora questo è il momento di un po’ di sano conflitto sociale, da organizzare attraverso le vertenze aziendali, territoriali, di gruppo, di distretto, di filiera, per far sì che ci sia un riequilibrio nel rapporto tra salari e profitti. Servirà a contrastare l’inflazione e ad aggiustare la domanda. La politica fiscale può aiutare questo processo, ma il sacrosanto recupero dei salari non si può fare solo a spese del contribuente.
6) La tassa sugli extraprofitti delle banche. Il governo ha fatto una cosa non da destra?
Abbiamo appena visto che, nella fase che ci sta alle spalle, si è determinato uno squilibrio tra salari e profitti, a favore di questi ultimi. Non vuol dire, ovviamente, che questo valga per tutti i settori e per tutte le aziende. Ecco perché il riequilibrio deve avvenire con il forte rilancio della cosiddetta contrattazione di secondo livello. Quanto al settore bancario, in Italia, è avvenuto che i tassi di interesse che le banche riconoscono ai depositanti e quelli che le banche richiedono per i prestiti non si sono mossi -come avrebbero dovuto- né con la stessa tempestività , né nella stessa direzione. Se si poteva consentire che il rialzo non fosse simultaneo, il fatto che – a distanza di molti mesi- i risparmiatori abbiano continuato a ricevere sui loro depositi lo zero virgola, mentre le rate dei mutui variabili salivano enormemente, assieme ai tassi sui nuovi mutui, segnala che c’è qualcosa che non va. La cosa avrebbe dovuto interessare al Governo e all’Autorità per la tutela della concorrenza. Perché nessuna banca -nessuna- ha messo in atto un’iniziativa di aspra competizione con le altre, per dire ai risparmiatori: portate i soldi da noi, perché noi abbiamo sì alzato i tassi per i prestiti, ma abbiamo alzato anche quelli per i vostri risparmi nei conti correnti? La risposta è semplice: perché non c’è concorrenza tra banche. In un settore nel quale è cruciale che concorrenza ci sia, per far funzionare bene l’economia. Non facendo nulla su questo fronte, il Governo non ha tutelato adeguatamente gli interessi dei risparmiatori e dei cittadini. Non mi sembra poi di sinistra la scelta del Governo relativa alla destinazione del gettito della tassa straordinaria sui ricavi bancari da interesse: il Governo spagnolo ha impegnato il gettito di una tassa analoga per finanziare un Fondo sociale per il sostegno alle fasce sociali meno abbienti. Il Governo italiano dopo aver allegramente scritto in Relazione tecnica che“prudenzialmente non stima il maggior gettito connesso“- ha invece deciso che, qualora ci fossero, gli introiti andrebbero a finanziare il Fondo per la prima casa e “interventi volti alla riduzione della pressione fiscale“. Poiché in questo secondo caso non si potrà certo trattare di interventi strutturali, come quelli per la riduzione del cuneo sul lavoro (le entrate sono una tantum), mi sembra di poter concludere che anche sul fronte della destinazione delle eventuali risorse ricavate ci sia ben poco “di sinistra“. La verità è che -non avendo fatto nulla per contrastare le scelte delle banche, quando si era ancora in tempo per impedire loro un lucro eccessivo sui risparmi dei depositanti, il Governo Meloni ha tentato un recupero di rapporto con l’opinione pubblica arrabbiata, attraverso un provvedimento abborracciato (addirittura corretto dal Mef dopo il Consiglio dei Ministri), che non tocca la sostanza del problema (nel settore bancario c’è poca concorrenza) e non risarcisce i danneggiati (risparmiatori e mutuatari).
7)Più in generale, che giudizio dà dell’azione del governo Meloni sul terreno delle politiche economiche e sociali?
Mentre sul fronte della collocazione internazionale del Paese Meloni- malgrado il filoputinismo dei suoi alleati- ha garantito l’impegno del Paese nella Alleanza delle democrazie per l’aiuto alla resistenza Ucraina, sul piano del ruolo dell’Italia in Europa il suo Governo è prigioniero degli errori del passato, impedendo al Paese di essere protagonista nella fase di definizione del nuovo Patto di stabilità, a sostegno della proposta avanzata dalla Commissione. Sul piano interno, ha compiuto scelte contraddittorie: ora ha deciso di accettare la cessione della rete di TIM ad un fondo americano, dopo essersi impegnato per il contrario. Per il resto, ho già detto: molte bandierine segnaletiche di tipo populista, grande ostilità verso qualsiasi innovazione di sistema.
8) In Italia esiste e morde sempre di più, una irrisolta “questione sociale”. Crescono le diseguaglianze, emergono nuove sacche di povertà. Il PD è attrezzato a questa sfida?
C’è il problema-per ora irrisolto-di definire un progetto di governo credibile, alternativo a quello del destra-centro. Non mi riferisco -in questo caso- ai problemi di assetto politico (coalizione contro, o coalizione per, organizzata attorno alla leadership di un partito a vocazione maggioritaria?). Parlo di una visione sui problemi di fondo del Paese, a partire da quelli della povertà e della parte più debole della popolazione. In primo luogo, c’è bisogno di crescita significativa e duratura. Cioè, di crescita della produttività. Per risolverlo, l’esigenza primaria è quella di unificare il mondo del lavoro, tutto, dalla sua componente più debole a quella più forte. Riferendoci alla vicenda di questi giorni, bisogna tenere assieme salario minimo e contrattazione di secondo livello per distribuire a favore dei lavoratori più produttivi quote dei profitti ottenuti da incrementi di produttività (e di valore delle aziende), cui danno un contributo determinante. Nel progetto, deve avere un posto centrale lo sviluppo della democrazia economica, cui lo Stato può fornire un sostegno importante con le sue scelte fiscali. In questo contesto, le politiche di Welfare devono poter fare maggiormente leva da un lato sul settore no-profit (si può fare eguaglianza anche senza statalizzare tutto), dall’altro sullo sviluppo ulteriore del Welfare aziendale. Le politiche attive per il lavoro -previste, ma non attuate nel Jobs Act- potranno così svolgere una fondamentale funzione di diffusione dell’eguaglianza delle opportunità. E una robusta rete di sostegno universale del reddito di chi non può lavorare, farà il resto.
9) La scorsa settimana è scomparso Mario Tronti, tra i pensatori politici più sensibili ai temi sociali e del lavoro.
Avevamo posizioni molto diverse, che abbiamo cercato di far prevalere in un confronto in cui ognuno -io certamente- poteva giovarsi degli argomenti dell’altro per misurare la capacità dei propri nel capire la realtà sociale, dare rappresentanza agli interessi ritenuti meritevoli di tutela e favorirne l’affermazione nel conflitto sociale e politico. Nei giorni della sua scomparsa voglio ricordare l’interesse e la passione che suscitarono in me, giovanissimo, gli articoli e i saggi della fase “operaista“ della sua elaborazione.