Nella bufera della recessione mondiale, nella deriva da eccesso di rischio provocata dall’avidità degli oligarchi dell’ oligopolio mondiale non possiamo non rivolgere il nostro sguardo ai due secoli che sono alle nostre spalle e durante i quali, sino a circa trent’anni or sono, il capitalismo mondiale aveva costruito i meccanismi della sua accumulazione contestualmente ad articolati e plurimi meccanismi di difesa e di tutela della società dal mercato. Quest’ultimo, in tal modo, era stato temperato, non limitato, ma dotato di una morale sociale e istituzionale di sostegno che aveva consentito la creazione, a fianco delle cattedrali dell’accumulazione, di una immensa rete di difesa e di elevazione sociale delle classi lavoratrici e delle classi medie, del popolo, quel popolo a cui pensava Sturzo quando parlava di “quelle mezze maniche”, volonterose, ma de-privilegiate sui mercati, che dovevano trovare sostegno per la loro attività ininterrotta, per se stessi e le loro famiglie.
Per lungo tempo l’interpretazione storiografica ed economica prevalente è stata quella che identificava nello Stato lo strumento principale per realizzare tale contestualità tra la crescita economica e la difesa sociale. Per molti deve essere ancor oggi lo Stato e solo lo Stato a far sì che le condizioni de-privilegiate nel mercato trovino riequilibrio e sostegno. Lo Stato del welfare, lo Stato benevolente o compassionevole, che trasforma l’esazione dell’imposta in erogazione di benefici a difesa e a sostegno degli ultimi. Ma così facendo crea quell’immenso apparato burocratico che incarna, con le tutele, anche il costo del suddetto welfare state.
L’attuale, drammatica, crisi fiscale delle sovranità nazionali ha reso evidente a tutti questo concetto e questa tragedia. Recentemente, sotto la spinta della riflessione filosofica e morale, nonché storiografica, questo modello interpretativo è stato o messo in scacco o, quanto meno, temperato. Accanto allo Stato, al suo fianco, oppure addirittura erigendosi contro di esso (basta pensare alla lotta e alla sconfitta della previdenza mutualistica in Italia a fronte dell’intervento statalizzante crispino alla fine dell’Ottocento, che ebbe anche forti venature anticlericali), si scopre sempre più che ciò che assicurava la resistenza delle classi popolari e industriose, borghesi e popolari, beninteso, era una fitta rete di associazioni mutualistiche, in tutta Europa. E poi, via via, furono, sempre più potentemente religiose, soprattutto dopo la straordinaria innovazione sociale, oltreché spirituale, che fu la Rerum Novarum, che aprì al mondo intero una nuova dimensione solidale. Tutta l’esperienza del solidarismo cristiano, del resto, già all’opera da secoli, a cominciare dall’Europa con i Monti di Pegno, veniva consolidandosi: le opere caritative degli ordini religiosi, le confraternite quacchere che precocemente concepirono addirittura una versione a- capitalistica dell’impresa industriale e finanziaria di cui abbiamo ancor oggi testimonianze attive e operanti in Gran Bretagna e negli USA. Ecco il legame sociale che sorreggeva la povertà e la elevava trasformandola in emancipazione, predicando il risparmio e la solidarietà tra pari. Ossia il mutualismo: Società di Mutuo soccorso, cooperative di lavoro, di consumo, di credito: famiglia, quest’ultima, a cui la mia banca si onora oggi più che mai di appartenere.
Il Mutuo Soccorso veniva configurandosi, ieri come oggi, e questo va sottolineato, come una forma di cooperazione sociale sulla base della reciproca tutela e assistenza. Da tale forma di socialità scaturì uno straordinario insieme di istituzioni basate su questa forma di cooperazione.
Infatti la mutualità volontaria è una forma storica di solidarietà, uno strumento di risposta ai bisogni sociali che si esplica attraverso le Società di mutuo soccorso, istituti di associazionismo economico non profit voluti dai lavoratori a partire dalla seconda metà dell’800. È la volontarietà l’essenza del fenomeno, la sua alterità allo statalismo, un’alterità che fonda una riproducibilità del pluralismo sociale basato sulla sussidiarietà e il sacrifico, sui doveri dell’uomo più che sui suoi, innegabili anch’essi, diritti.
Nata per fornire un contributo al miglioramento della vita e delle condizioni dei cittadini, nel corso dei suoi quasi duecento anni di vita la mutualità volontaria ha mantenuto l’impostazione solidaristica originaria. E oggi conferma la validità della propria proposta svolgendo un ruolo integrativo e sussidiario nella riorganizzazione del welfare della società globalizzata, operando in tutto il mondo e plasmandosi sulle specificità culturali delle società locali per la promozione, lo sviluppo e la difesa del movimento solidaristico di lotta contro la povertà e la marginalità economica e morale: è un moto, lo ripeto, volontario, che stimola l’autorganizzazione delle famiglie e delle comunità nel campo assistenziale, sanitario, previdenziale, culturale e ricreativo, per contribuire a migliorare le condizioni economiche e sociali della collettività, nell’ambito di un originale e antistatualistico sistema di nuova sicurezza sociale.
Ecco perché la mutualità ha un futuro. Se non lo avesse dovremmo rassegnarci alla vittoria del nichilismo, dell’assistenzialismo, dell’indignazione anomica. Mentre oggi abbiamo bisogno, invece, della soggettività della persona quanto mai prima nella storia travagliata dell’ umanità. Negli ultimi decenni l’economia è stata soverchiata dalla finanza stockopzionista che ha provocato la strage degli innocenti, nel trionfo del rischio altrui e nel trionfo delle asimmetrie informative, nel trionfo delle banche e dei circoli ombra della liquidità, in un gioco di specchi gestito da una nuova oligarchia senz’anima che si appresta a dominare anche la politica creando il panico finanziario e la distruzione degli assets dell’economia reale. La società si fa sempre più fragile, le relazioni personali sono ristrette, il mercato si trasforma in luogo di scontro e di frode legalizzata e non di incontro. La realtà diventa illusione. Il mito della valorizzazione capitalistica sostituisce l’imperativo di una economia giusta che non può non essere fondata che sul pieno impiego e su un ritorno a una gestione partecipativa del pluralismo medesimo, impedendone la trasformazione in una nuova forma di oligarchia.
A fronte di tutto ciò risplende l’alternativa morale di un’economia polifonica. La forma solidale mutualistico-cooperativa diviene, allora, in questa lotta per un’economia morale, l’alternativa fondamentale. Essa è un’impresa nella quale il fine e il fondamento dell’agire economico è il soddisfacimento dei bisogni della persona (il socio); alla sua base vi è, dunque, la comune volontà dei suoi membri di tutelare i propri interessi di consumatori, lavoratori, agricoltori, operatori culturali, secondo i principi della libertà e del mutuo aiuto. L’elemento distintivo e unificante di ogni tipo di cooperativa – a prescindere da ogni altra distinzione settoriale – infatti, si riassume nel fatto che, mentre il fine ultimo delle società di capitali è la realizzazione del lucro e si concretizza nel riparto degli utili patrimoniali, le cooperative hanno, invece, uno scopo mutualistico, che consiste – a seconda del tipo di cooperativa – nell’assicurare ai soci il lavoro, o beni di consumo, o servizi, a condizioni migliori di quelle che otterrebbero dal libero mercato.
Le cooperative, per garantire l’effettività di questa natura fondativa e una sempre possibile eterogenesi dei fini, sono caratterizzate dal voto capitario dei soci, ovvero dal fatto che ogni socio ha diritto a un voto in Assemblea, indipendentemente dal valore della propria quota di capitale sociale. A cui fa da contrappeso l’imposizione, per legge, di limiti piuttosto contenuti al possesso azionario. Questo fa della cooperativa la forma ad oggi più evoluta di capitalismo democratico, nella quale il socio conta per il valore intrinseco delle idee e delle proposte di cui è portatore e non per il “peso” economico della sua partecipazione al capitale. Viceversa, nelle società per azioni i voti sono attribuiti in proporzione al numero di azioni (con diritto di voto) possedute da ogni socio. Ma l’esperienza e la dottrina economica hanno nel primo decennio di questo secolo ampiamente evidenziato come non sia possibile riscontrare alcun vantaggio operativo ed economico da parte delle società in cui vige il sistema del voto per azione rispetto alle altre, tanto che la stessa C.E. ha rinunciato ad imporre questo principio a livello europeo. Caratteristica propria della cooperativa è quindi il principio di parità tra i soci (esempio preclaro di democrazia economica), che implica, tra l’altro, oltre al voto capitario, la necessità di un giudizio motivato sull’ ammissione o sul diniego di ammissione nei confronti di nuovi soci.
Come ben si comprende un paradigma totalmente diverso da quello dominante che, se applicato su scala ben più vasta di quanto non sia già oggi, consentirebbe al mondo di fuoriuscire dalla crisi.
Oggi, infatti, il movimento cooperativo e mutualistico continua a perseguire i valori sociali che gli sono propri, come democraticità e solidarietà, lotta contro la disuguaglianza e l’ingiustizia sociale secondo i principi tanto della giustizia distributiva quanto di quella commutativa. E proprio grazie a queste caratteristiche, la cooperazione ha retto, meglio di altri, l’urto della crisi. In tutto il modo grandi organizzazioni mutualistiche in ogni settore merceologico, accanto a un microcosmo fatto di piccolissime imprese, il cui solo scopo è quello di operare con i soci, fornendo loro lavoro, beni e servizi, rendono manifesta la resistenza del corpo sociale, della soggettività creatrice dinanzi alla macchina impersonale e distruttrice dei mercati non sorretti da principi morali e quindi da essi regolati. Il movimento cooperativo, per esempio, invece di licenziare e delocalizzare come hanno fatto moltissimi imprenditori capitalistici negli ultimi anni, reinveste gli utili all’interno della stessa cooperativa, producendo valore e occupazione perché questa forma di associazionismo economico non ha come fine ultimo il profitto, ma la solidarietà. Per questo oltre 500 docenti delle Università italiane in un loro manifesto su “La Cooperazione, un patrimonio del Paese da tutelare e valorizzare” hanno fra l’altro evidenziato che “le cooperative sono un patrimonio del Paese, un motore di sviluppo economico e di crescita sociale, contribuiscono alla nascita dell’imprenditoria soprattutto giovanile e alla valorizzazione delle qualità imprenditive e innovative delle persone, cruciali al mantenimento di un ruolo rilevante del nostro Paese nell’economia mondiale. Continua, continuerà, lo “scandalo” evangelico dell’economia fondata sulla mutualità e l’associazione creatrice di liberi soggetti.
Segretario Generale dell’Associazione Nazionale fra le Banche Popolari