di Paolo Segatti
Il videomessaggio con cui la Presidente del Consiglio ha salutato i lavori del convegno nella biblioteca del Senato su “Nazione e Patria. Idee ritrovate” lo scorso 30 maggio sorprende da diversi punti di vista.
Anzitutto Patria e Nazione non sono idee ritrovate. Se ne è parlato spesso in questi anni, per lo meno dalla comparsa sulla scena politica del partito diretto ora dall’on. Salvini. Poi Ciampi, il richiamo al patriottismo e le stesse sue parole sull’8 settembre 1943 come morte dello stato e non della patria. Il convegno che si tenne quasi un quarto di secolo fa alla Camera organizzato da presidente Violante esattamente sugli stessi temi. L’istituzione nel 2000 del giorno della Memoria “in ricordo sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti e poi nel 2004 del giorno del Ricordo delle complesse vicende del confine orientale. Tutte iniziative volte ad inserire nella memoria nazionale storie diverse tra loro ma tutte sottaciute per decenni.
Non è dunque vero che adesso Patria e Nazione “siano uscite da una marginalità nella quale per decenni erano state relegate”. Se lo dice è legittimo il dubbio che sia convinta che il consenso di cui gode oggi il suo partito rifletta un più intenso e migliore sentimento nazionale. Se pensa così sbaglia perché significherebbe che la maggioranza degli italiani che non hanno votato Fratelli di Italia non sono patrioti nella stessa misura nella quale lo sono chi ha votato questo partito. Per il bene della Nazione meglio sperare che le sue parole siano soltanto la retorica a cui ci hanno abituato politici di ogni colore, per i quali le loro vittorie elettorali rappresentano sempre l’inizio di una nuova storia. Comunque anche se fossero solo questo, il modo in cui ha parlato di nazione e patria fa pensare.
La presidente Meloni parte da una definizione di nazione e patria che accosta due prospettive diverse se consideriamo quali sono le fonti di una di queste. Da un lato confessa di aver sempre pensato “che tanto la Nazione quanto la Patria fossero società naturali, cioè qualcosa che è naturalmente nel cuore degli uomini e dei popoli e prescinde da ogni convenzione”. Dall’altro fa sua la tesi di Ernest Renan citando letteralmente la classica definizione che questo fa della nazione come “una grande solidarietà, costituita dal sentimento dei sacrifici compiuti e da quelli che si è ancora disposti a compiere insieme. Presuppone un passato, ma si riassume nel presente attraverso un fatto tangibile: il consenso, il desiderio chiaramente espresso di continuare a vivere insieme. L’esistenza di una Nazione … è un plebiscito di tutti i giorni”.
Ma Renan quando definiva la nazione in questo modo stava apertamente polemizzando con l’idea di nazione presente in Germania. Voleva dire che gli alsaziani erano francesi come gli altri per la loro volontà di essere parte della repubblica nonostante che la loro lingua fosse diversa. Se la prendeva con l’idea di nazione dei tedeschi per i quali la lingua parlata rivelava quale fosse l’intima identità etnica di un uomo. Renan criticava inoltre il governo di Berlino per la politica nei confronti degli immigrati polacchi. Uomini a cui era negata la possibilità di integrazione nello stato tedesco perché non parte della nazione tedesca immaginata come società naturale.
Per trovare chi invece propone una definizione di nazione intermedia tra quella tedesca e quella francese bisogna risalire a Pasquale Stanislao Mancini, il padre del diritto internazionale pubblico e privato italiano. Nella lezione su principio di nazionalità con cui aprì nel 1851 il suo corso all’Università sabauda lo definisce come: “una società naturale di uomini da unità di territorio, di origine, di costume e di lingua conformati a comunanza di vita e di coscienza sociale” ( P.S. Mancini, Della nazionalità come fondamento del diritto delle genti).
Mancini aveva ottime ragioni per proporre questa definizione. Nel 1851 gli italiani, meglio dire le loro classi dirigenti, si percepivano da secoli uniti nella lingua, nei costumi e condividevano la stessa mappa mentale dei confini geografici dell’Italia, ma erano divisi tra loro in quanto sudditi di stati diversi. Il problema politico per Mancini nel 1851 era di trasformare in coscienza e soggettività politica quel secolare legame culturale.
La differenza tra Renan e Mancini riflette i diversi modi di costruzione dello stato e della nazione in Francia e in Italia. Renan poteva sostenere credibilmente che gli alsaziani pur parlando una lingua diversa condividevano un passato comune in quanto parte da secoli dello stato francese, al pari dei bretoni, catalani, baschi e corsi. Lo diceva poi in un momento in cui il processo di nazionalizzazione di massa era già in atto accompagnato da un allargamento della democrazia, come ha spiegato magnificamente E. Weber. Mancini auspicava invece una presa di coscienza da parte delle classi dirigenti degli stati unitari dei legami culturali in essere tra loro da secoli. Lo diceva decenni prima che si avviasse il processo di nazionalizzazione di massa mentre l‘allargamento della democrazia in Italia doveva ancora iniziare.
È evidente che l’auspicio della Meloni di un “ritrovato” sentimento nazionale si colloca in un contesto completamento diverso da quello di Renan e di Mancini. Gli italiani sono da oltre 150 anni cittadini dello stesso stato. Non v’è traccia che manifestino un deficit di senso di appartenenza nazionale. Semmai si dividono sui modi di intendere il loro essere italiani come accade in ogni democrazia. Le idee di Nazione e Patria del presidente del consiglio indicano quello che potrebbe essere il punto di vista della destra italiana di origine fascista. Se è così, i riferimenti pur zoppicanti a Renan andrebbero salutati come un tentativo di aggiornamento.
Tuttavia la doppia definizione di nazione cala in un contesto che mette in oggettiva tensione l’auspicio di una riscoperta dei legami prepolitici che ci legano (la società naturale) e l‘aspirazione di fare della nazione il risultato di un atto di volontà politica (il plebiscito di tutti i giorni). Tre esempi.
Primo esempio. Da oltre un secolo sono parte dello stato italiano due minoranze nazionali autoctone, sudtirolesi e sloveni. Vi sono entrate senza volerlo e per alcuni decenni hanno sofferto per le politiche attuate dal regime da cui il partito della Meloni ha preso le distanze senza però dire su questo punto mai una parola di condanna. Che cosa offre ad entrambi la proposta della Meloni quanto al fondamento dei loro diritti collettivi? Tali diritti derivano dal fatto che lo stato italiano riconosce l’esistenza di altre e minoritarie “società naturali” (più precisamente enclave etniche) oppure derivano dal fatto che sudtirolesi e sloveni sono cittadini dello stesso stato di cui è cittadino chi si sente italiano, ed è la comune cittadinanza che garantisce ai primi il diritto di promuovere la loro diversità?
La domanda non è accademica. L’Unione Federale delle Nazionalità Europee (FUEN) presieduta da un leader del partito di Orban ha ripetutamente chiesto negli ultimi anni che le minoranze nazionali autoctone fossero interlocutori diretti dell’Unione Europea ottenendo una risposta negativa dalla Commissione. Una recente sentenza della Corte di Giustizia ha dato ragione alla Commissione ribadendo che sono gli stati a garantire i loro diritti. Da che parte si schiera Giorgia Meloni? Se fa leva sull’idea di nazione come società naturale, a me pare evidente che stia dalla parte di chi vuole fare delle minoranze enclave etniche. Se fa leva sull’idea di nazione come espressione di una volontà di stare assieme come cittadini si apre uno scenario diverso.
Secondo esempio. Gli immigrati non possono essere considerati ora alla stregua di minoranze nazionali autoctone, anche se in alcuni casi il loro numero supera quello delle minoranze nazionali. Ma possiamo escludere che in un futuro più o meno lontano non si ponga un problema di inclusione nello stato nazionale analogo a quello posto dalle minoranze autoctone? Se la distribuzione territoriale di alcune componenti di immigrati si addensa in alcune località è veramente impensabile che non ci sia la richiesta di poter educare i loro figli nella lingua madre? Del resto qualcosa di simile accade in alcuni paesi europei con le tradizioni e pratiche religione. Se ci troveremo in questa situazione, i due obiettivi, la riscoperta da parte degli italiani di legami culturali così forti da essere considerate naturali e la promozione di una volontà politica incardinata sulla comune cittadinanza, chiaramente collidono. Il primo esclude categoricamente chi non sente suo l’intero pacchetto di abitudini e di tradizioni culturali che fa della nazione una “società naturale” negli auspici della Meloni. Il secondo include in una comunità politica chi ne è fuori mentre affida a politiche di integrazione la definizione (negoziata?) del grado in cui i nuovi arrivati diventano simili culturalmente alla maggioranza.
Terzo esempio. L’identità europea non ha, e credo che non avrà neanche in futuro, l’intensità emotiva che ha il sentirsi parte di una comunità nazionale. È diventata una delle identità che definiscono chi siamo, come lo sono quelle locali. Fa però differenza se l’italianità viene immaginata in pericolo perché l’Europa è una potenza imperiale che non riconosce le nostre particolarità o se al contrario l’Europa è lo scudo che ci consente di promuoverle. La scelta è tra una mentalità da minoranza nazionale continuamente a rischio di affogare nel mare della grande storia o una nazione che grazie a istituzioni democratiche concorre in alleanza con altre democrazie a determinare il proprio futuro. Tra una idea di piccola patria chiusa quanto può esserlo una società naturale e una idea di patria aperta.
In un discorso di meno di sei minuti la presidente del consiglio non poteva certo affrontare per esteso questi temi. Ma avrebbe potuto almeno segnalare che è consapevole che di Patria e di Nazione occorre parlare adesso perché adesso abbiamo bisogno di un loro aggiornamento. Limitarsi a dire che vanno solo ritrovate rischia di far apparire il suo intervento funzionale alla polemica politica spicciola.
Professore Ordinario di Sociologia Politica nella Università degli Studi di Milano dal 2002. Ha insegnato anche nelle università di Venezia, Trieste e Pavia. Tra i suoi ultimi libri: “L’apocalisse della democrazia italiana. Alle origini di due terremoti elettorali” (con Schadee e Vezzoni) Il Mulino 2019, “European Identity in the context of National Identities” (con Bettina Westle) Oxford University Press 2016, “La rappresentanza Politica In Italia, candidati ed elettori nelle elezioni del 2013” (con Aldo De Virgilio) Il Mulino 2016, Itanes “Voto Amaro Crisi economica e discontento nelle elezioni del 2013” (con P. Bellucci), Il Mulino 2013.