di Danilo Paolini
Settant’anni fa il sogno del francese Robert Schuman: un’Europa unita dalla pace e dalla solidarietà reciproca tra le nazioni. Un sogno audace al quale subito aderirono il tedesco Konrad Adenauer e l’italiano Alcide De Gasperi. Tre statisti ‘visionari’, nell’accezione più nobile del termine, tre cattolici democratici.
Che cosa è rimasto, oggi, di quel sogno? Nulla, dicono in molti, se non un enorme apparato burocratico e le fredde cifre utili a descrivere il rapporto tra il deficit e il Pil di ciascuno degli Stati membri. Ma tanti altri, e noi con loro, pensano che quel sogno è almeno in parte divenuto realtà e sarebbe veramente un errore imperdonabile lasciarlo morire.
Pensano, inoltre, che la solidarietà deve fondarsi sulla responsabilità e sulla lealtà. Lealtà alla parola data, che in questo caso è soprattutto lealtà a quel primo patto del 1950: fondere i cannoni per ricostruire il morale e le case di un continente dilaniato prima dalla follia di ideologie totalitarie e poi dalla Seconda guerra mondiale.
Ogni passo indietro rispetto all’atto e allo spirito fondativi della Comunità europea del carbone e dell’acciaio sarebbe un passo per ritornare sull’orlo di abissi ora inimmaginabili, ma che non tarderebbero a rivelarsi nelle loro sembianze aggiornate. Abbozzi talora fetidi talaltra grotteschi già si trovano sui social e nelle cronache. Qualche volta – ahinoi – perfino nelle sedi istituzionali.
Dunque, l’Europa. In queste settimane stordenti e rese grigie dalla pandemia che ci nega gli abbracci e numerose altre libertà ci si accapiglia (non solo in Italia, ma soprattutto in Italia, e ci sarà un perché) sul ricorso al Mes, il Meccanismo europeo di stabilità o Fondo salva-Stati, revisionato per affrontare l’immane crisi sanitaria provocata dal Covid- 19.
Per l’Italia si tratterebbe di avere in prestito fino a circa 36 miliardi per la Sanità a un tasso d’interesse assai minore di quello che dovremmo pagare per racimolare la stessa cifra piazzando titoli del debito pubblico. Ma non entriamo nel merito della decisione che sarà presa dal governo: una certa cautela rispetto a uno strumento così complesso è per altro comprensibile, si registra anche da parte di altri Paesi europei. Purché la cautela non si trasformi in immobilismo e, soprattutto, purché scartata una soluzione si abbia pronta un’alternativa altrettanto valida (e non più onerosa).
Qui ci interessa, invece, affermare un’evidenza che sembra sfuggire a tanta parte della classe politica nostrana, dell’opposizione e di larga parte della maggioranza: senza l’Unione Europea la bancarotta sarebbe dietro l’angolo, se non addirittura già dichiarata. Non soltanto la nostra, probabilmente. Ma non la bancarotta di tutti.
Già conosciamo l’obiezione: Germania e (forse) Francia non fallirebbero perché la Ue è costruita su misura per loro. Curiosamente, però, gli stessi che sostengono questa tesi indicano proprio Berlino come modello da imitare per rialzarsi dopo la pandemia, a ragione del grande flusso di denaro investito dal governo federale per sostenere cittadini e imprese. Ma Berlino, come si dice, se lo può permettere e non per un colpo di fortuna.
Perché, allora, non fare un bagno di umiltà e imparare la lezione una volta per tutte? Perché non smetterla di invocare ‘più Stato’ in ogni epoca come se davvero fossimo la patria del liberismo (abbiamo oltre 9mila società partecipate e gran parte di queste sono sotto il diretto controllo pubblico, fonte Istat), sapendo che quando lo Stato servirebbe davvero non riesce ad agire con efficacia e rapidità, legato com’è da cordoni burocratici secolari e schiacciato da una montagna di debito pubblico? Perché non ammettere che bisognava evitare di accumulare quel troppo debito – spesso a causa di sprechi, corruzione e prebende varie – per potersi indebitare più serenamente quando sarebbe stato indispensabile, cioè adesso? Perché insomma, non guardare alla Germania – che in questi 70 anni si è garantita stabilità, salari alti e bassi livelli di disoccupazione con un’economia sociale di mercato che ha incentivato anche la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese – come a un esempio e non come a un nemico?
Riflettano, in casa nostra, gli antieuropeisti, i russofili, i sinofili e gli aspiranti emuli di Orbán. Adesso pensiamo a salvarci, a salvarci tutti. Poi facciamo i conti con quanto ci ha insegnato un odioso microrganismo.
(Pubblicato su Avvenire, domenica 17 maggio 2020)