di Claudio Petruccioli
Intervento all’Assemblea di Libertà Eguale, Orvieto – 14 luglio 2018
Non posso dire tutto quel che vorrei, per evidenti limiti di tempo; mi concentro, perciò sulla maggioranza e sul governo che si sono formati in conseguenza del voto del 4 marzo. E’ la novità senza alcun dubbio più rilevante che abbiamo di fronte; inoltre, il modo come valutarla sembra conquistare il centro della attenzione e delineare le diverse posizioni in vista del congresso del PD; e, comunque, sono molti – dentro e fuori il PD – che considerano il M5S e la Lega due forze che hanno poco o nulla in comune e traggono da questo giudizio orientamenti politici sia sulle prospettive e la durata del governo Conte, sia sull’atteggiamento da assumere nei confronti dei due contraenti che lo hanno formato e lo compongono.
Quel che unisce Lega e cinquestelle
Io penso che la tesi della “incompatibilità” di Lega e cinquestelle sia infondata e che fra loro ci sia invece molto in comune. La base di questa maggioranza è chiarissima: sta nella opposizione lunga frontale senza soste né eccezioni da parte della Lega di Salvini e del Movimento 5 Stelle durante i 7 anni di governi sostenuti dal PD e – a intermittenza – da Berlusconi.
Per imboccare la strada di una opposizione assoluta, la Lega (che stava diventando “di Salvini”) nel 2011, quando si forma il governo Monti, rompe addirittura il centrodestra, visto che Berlusconi quel governo lo sostiene e continuerà a sostenerlo fino alla fine della legislatura. A rappresentare allora l’”ala sinistra del populismo” – per così dire – c’era, ricordiamocelo, quel Di Pietro considerato nel 2008 partner necessario del Partito Democratico, alla sua prima prova elettorale come sinistra di governo finalmente credibile. In Parlamento i 5 Stelle, arrivano cinque anni dopo, nel 2013: assumono immediatamente la stessa posizione di attacco frontale ai governi inaugurata un anno e mezzo prima dalla Lega, alla quale si mettono a fare concorrenza per conquistare il primato del rifiuto e della demagogia.
L’attuale maggioranza si cementa così, e si compone via via anche il programma che sarà poi travasato (con il filtro di una disinvolta ipocrisia, che inganna solo chi vuole crederci) nel “contratto Salvini – Di Maio”. E’ stato un cammino comune durato l’intera XVII legislatura; sono i cinque anni durante i quali si è formato molecolarmente in Italia – da tutti i punti di vista, programmatico sociale culturale ecc. – quello che è emerso il 4 di marzo, e che si era già rivelato peraltro il 4 dicembre 2016. Il resto sono chiacchiere, analisi fumose e false.
Certo che Lega e M5S sono due forze diverse ma è a partire da questo dato incontestabile che si capisce perché stanno insieme, perché hanno voluto e vogliono stare insieme e, anche, in che senso sono diverse. La Lega è una destra nazional populista, il Movimento Cinque stelle è un movimento antisistema con le ipoteche totalitarie di ogni forza che contrasta e rifiuta un sistema di democrazia rappresentativa e liberale. Con “totalitaria” intendo una posizione politica e culturale che si propone di cancellare completamente il sistema esistente e identifica se stessa con la “nuova totalità” da affermare. Che il Movimento 5 stelle possa far pensare – come ha detto Renzi alla Assemblea nazionale – a una specie di corrente della Lega è una fesseria; non si dimentichi che i movimenti totalitari che incontriamo nella storia hanno praticato e accettato senza problemi il pluralismo fino a quando non hanno avuto l’occasione e la forza per cancellarlo.
Che il discrimine siano gli anni 2011-2018 risulta chiaramente non solo dai partiti che si sono uniti per fare maggioranza, ma anche da quelli che si trovano oggi alla opposizione: sono gli stessi che hanno variamente sostenuto i governi in questo periodo; chi in modo continuativo chi a sbalzi e con intervalli, chi per convinzione chi per necessità. L’odierna opposizione è sparpagliata e confusa in significativa corrispondenza con l’atteggiamento che i suoi diversi segmenti hanno avuto rispetto ai governi della fase precedente: c’è il PD dal quale si pretende che “faccia opposizione” come fosse la sola forza che non ha votato la fiducia al governo Conte (proprio perché è l’unico partito ad aver sempre sostenuto i governi in questi anni cruciali, ad averne fatto parte con la responsabilità massima durante l’intera XVII legislatura) ci sono i Fratelli d’Italia, di fatto in maggioranza; c’è FI che fa la parte dell’asino di Buridano. Sono peraltro ancora evidenti e operanti, in particolare nel PD e nella sinistra (ma anche nelle relazioni fra i berlusconiani e gli ex del Nuovo centro destra) le divisioni nate e vissute dal governo Monti in qua; divisioni che, perciò, non sono solo di ieri ma agiscono oggi e agiranno domani, perché riguardano la concezione stessa dl governare l’Italia, l’orientamento fondamentale che si vuole dare al “governare”.
Si obietta che gli attuali soci di governo, nei sette anni non hanno fatto altro che opporsi; e, visti i risultati, anche in modo efficace. Mi rifiuto di fermarmi a questo giudizio. L’opposizione, anche la più dura contro un governo e le forze che lo esprimono può avere l’obiettivo assolutamente legittimo di sostituirle per dare ai problemi del Paese risposte diverse. Ma la opposizione di M5S e Lega non è stata di questo tipo; ha avuto l’obiettivo esplicito, ossessivamente e direi esclusivamente ripetuto, di rinnegare sette anni di governo, rifiutandone l’indirizzo, lo spirito che li aveva animati, insieme – ecco il punto decisivo e grave – con i problemi cui cercavano di dare risposta, si trattasse di Europa, di economia e sviluppo, di istituzioni, di diritti civili; si proponeva non solo di sostituire, ma di cancellare le forze che quel governo avevano espresso e sostenuto.
La teoria cospirativa della società
La questione mi si è ulteriormente chiarita ieri sera chiacchierando con Enrico Morando, il quale ha citato una formula di Popper; la “teoria cospirativa della società”, che attribuisce quanto accade a trame e complotti di qualcuno (Popper fa l’esempio degli dei in Omero); per cuibasterebbe eliminare i responsabili e tutto procederebbe per il meglio. Il concetto si attaglia perfettamente al modo in cui Lega e cinquestelle hanno condotto l’opposizione e (quel che è peggio) ispira il loro modo di governare; qualunque ostacolo, qualunque difficoltà, qualunque problema non è altro che il risultato di un complotto.
Si respingono così, anzi neppure si riconoscono, le cose essenziali, le sfide alle quali non si può sfuggire: si tratti dell’Europa, del debito, della produttività, dell’immigrazione o di qualunque altro problema con il quale qualunque governo non può fare a meno di cimentarsi. E’ una visione primitiva e agghiacciante della politica, e non a caso Popper ne fa uso riflettendo sull’ascesa di Hitler che fu maestro della concezione “complottarda” della politica.
Questo stimolante riferimento popperiano mi ha indotto anche a una lettura diversa dell’esito referendario del quattro dicembre 2016: la vittoria del NO forse non fu dovuta solo o soprattutto a un miscuglio di ostilità nei confronti di Renzi, di demagogico conservatorismo costituzionale, di prevalenza di motivazioni politiche contingenti sul merito della riforma. Le analisi che si fermano a queste spiegazioni – quasi tutte e spesso anche le nostre – hanno ignorato il fattore più importante: esattamente il diffondersi di una concezione populista (e complottarda) della politica che cresceva nella società, propugnata ed esaltata dai due interpreti oggi al governo, e accolta da ampi strati dell’elettorato. Era vero, infatti, che la riforma proposta consolidava l’esecutivo e la governabilità; obiettivo che contrasta frontalmente con la democrazia populista come l’abbiamo vista declinare dopo il 4 marzo e soprattutto come la vediamo ormai quotidianamente all’opera.
Del no del 4 dicembre si è vista la componente conservatrice e non – se mi consentite, sento mal di pancia nell’usare questa espressione – quella “rivoluzionaria”. La convinzione – di Renzi e forse anche di non pochi fra noi – che gli elettori che avevano votato cinquestelle avrebbero largamente scelto il SI è il segno della incomprensione, della sottovalutazione dei processi in atto nel segno della democrazia populista, di una incapacità a coglierne i sintomi allo stato nascente.
I binari su cui è stata costruita questa maggioranza, ha eliminato cancellato l’idea stessa che ci sia una crisi in Italia, in Europa e nel mondo. Con questo approccio, la crisi sparisce perché a provocare tutti i danni è stato un complotto; le colpe sono del Governo, dell’Europa, dell’emigrazione ecc. Attenzione, sono cose che leghisti e grillini dicono continuamente, ovunque, soprattutto sul web. Non facciamo spallucce, non abituiamoci; il passaggio, lo scivolamento verso il totalitarismo si realizza con dosi omeopatiche; non ci si accorge che sta avvenendo fin quando non è avvenuto. Quando si dice “terza Repubblica” o “stiamo scrivendo la storia” non sono parole a caso; sono, appunto, le dosi omeopatiche che vengono messe in circolazione e se non si ha la forza di capirne il significato e di contrastarle ci si abitua al veleno, ci si mitridatizza.
Il disconoscimento della crisi è, dal punto di vista programmatico, il vizio fondamentale di questa maggioranza e di questo governo; la parola e soprattutto l’idea di “crisi” nel contratto è del tutto assente; il disconoscimento della crisi, dei suoi caratteri, della sua portata è grave perché ne deriva una tremenda ipoteca sul futuro dell’Italia. E’ un punto impegnativo anche per noi, perché penso che, nonostante tutto, anche noi riveliamo un deficit quando facciamo i conti con la crisi. Ne ho parlato anche nel seminario sull’Europa del due luglio.
Difendere e riconsiderare
Difendere il significato essenziale dello sforzo profuso nei sette anni di governo che qui considero non vuol dire che non ci sia nulla da riconsiderare, nulla da correggere.
Con il senno di poi, mi sento di dire che già nel 2011 (ma anche dopo non abbiamo operato una rettifica in modo chiaro e comprensibile) non cogliemmo a pieno la connessione fra dimensione sovranazionale – globale e/o europea – e dimensione nazionale della crisi. Ci siamo concentrati, comprensibilmente, su questa seconda, sui cosiddetti “compiti a casa”; e abbiamo trascurato o sottovalutato che i fattori esogeni della crisi avrebbero aggiunto un carico tutt’altro che leggero ai nostri vizi e ritardi, complicandoli talvolta in modo piuttosto serio. In un certo senso ci siamo di fatto adattati anche noi alla teoria del “vincolo esterno” il quale, solo, indurrebbe noi italiani a comportamenti responsabili e virtuosi: una delle storiche cause culturali– ne sono convinto – della debolezza del riformismo italiano.
I “compiti a casa” erano necessari, ma non sufficienti a coprire tutto il fronte della crisi; crisi che è costata all’Italia il 10% del Pil. Morando, nelle conclusioni al seminario del 2 luglio, ha ricordato giustamente che solo in Italia la crisi ha avuto l’effetto di una guerra. E’ vero. Appunto per questo noi, conoscendo l’Italia, se avessimo ben compreso le dimensioni sovranazionali della crisi, avremmo dovuto capirlo e spiegarlo assai meglio di quanto abbiamo fatto. Abbiamo, invece, accreditato (e forse anche creduto a) una sorta di automatismo: i compiti a casa ci avrebbero fatto uscire dalla crisi; come se la crisi fosse solo nostra, non anche globale e specificamente europea (in una prima fase, si pensò addirittura che fosse solo americana).
Da parte nostra (dico dei nostri governi, ma in una certa misura siamo coinvolti anche noi di Libertà Eguale) c’è stato un ottimismo schematico, che ha finito per svalutare anche gli importanti, faticosi e costosi passi in avanti che abbiamo fatto. Se vogliamo possiamo non considerarlo un vero e proprio errore, ma un deficit di comprensione e di strumentazione analitica; come se ci fossimo attenuti ai canoni della geometria euclidea nel momento in cui abbiamo a che fare con problemi che richiedono il ricorso alle geometrie post euclidee. Comunque, un deficit non è poca cosa.
Intervenendo nel corso della Assemblea nazionale del PD del 7 luglio Renzi ha detto: ho sbagliato non perché ho rottamato troppo ma perché ho rottamato troppo poco. In un certo senso è vero; ma in queste parole si rivela il limite della sua visione e del suo ragionamento che in altri tempi e secondo altri stili sarebbe stato definito un limite di “soggettivismo”; ragionando così, finisce inevitabilmente per essere sempre colpa degli altri. Io penso che si debba mettere al posto della parola “rottamazione” la parola “riformismo”; e la riflessione diventa immediatamente più utile anche se più impegnativa e difficile.
Osare di più
Il nostro limite, in questi sette anni, non è che abbiamo riformato troppo, ma che abbiamo riformato troppo poco; non siamo stati capaci o non abbiamo osato andare più avanti delle necessarie e possibili azioni riformiste che sono state messe in campo, spesso azioni in inevitabile contrasto con abitudini, incrostazioni, attese di settori della popolazione orientati in passato a sinistra che tuttavia non sono più sostenibili né giustificabili; non siamo stati capaci di inserire quelle azioni, quelle riforme, in un orizzonte riformista più ampio anche se non immediato che desse un senso, una profondità, una terza dimensione appunto rispetto alle due della geometria piana. Forse non ne siamo stati capaci per carenza di visione, per indisponibilità di strumenti intellettuali, di quella che, con Wright Mills, potremmo definire “immaginazione sociologica”.
La prospettiva è stata in un certo senso meccanica: i compiti a casa, se ben fatti, assicurano la ripresa. Penso non sia così; anche Maran ha ricordato che un punto di vista corretto – prima ancora che politicamente, culturalmente corretto – ci dice che con l’economia globalizzata, è illusorio pensare che, chiusa la parentesi della crisi, quando sarà, si possa tornare a prima. Non è così. L’economia globalizzata modifica in modo permanente i parametri non solo dei “trenta anni gloriosi” ma anche dei decenni successivi; a prima non si torna più. E se si consolida la risposta che oggi sembra prevalente (chiusure dazi guerre economiche, che poi diventano tout-court guerre) si cade dalla padella nella brace.
Non possiamo pensare alla crescita e allo sviluppo nello stesso modo del passato; né quantitativamente né qualitativamente. La crescita va indiscutibilmente perseguita ma è anche indispensabile definirla a cominciare dai limiti quantitativi possibili e ragionevoli. Si deve dire la verità alle persone, anche per iscrivere un progetto riformista dentro parametri verosimili e compatibili con quella integrazione che noi vogliamo sostenere e sviluppare, per contrastare la disintegrazione.
Per esempio dire che il debito possa essere non dico cancellato ma governato con facilità sulla base di una crescita annuale al ritmo del quattro per cento è una fake news. Può darsi – anche se è poco probabile – che in un anno, in presenza di condizioni di straordinario favore, si abbia una crescita del quattro per cento; ma un ritmo di questo genere proiettato costantemente nel futuro, su cui fondare i progetti di un riformismo di governo e sociale è una illusione e un inganno. Per il periodo che possiamo prevedere con verosimile fondamento, ci rendiamo conto di quanto sia difficile un ritmo di crescita intorno al due per cento; ed e già è tanto. Mi limito a questo esempio anche se avrei tanti altri da farne; cercherò di metterli per iscritto.
Il discorso di Tony Blair
Insisto, concludendo, sul punto che a me sembra centrale; lo faccio citando il discorso di Tony Blair a Chatham House il 27 giugno. Lo ha citato anche Renzi davanti alla Assemlbea nazionale provocando reazioni scomposte e infastidite; in una platea anche vagamente di sinistra se si nomina Blair a una parte dei presenti viene un attacco di itterizia.
Dice Blair: “L’interdipendenza del mondo non è una norma (cioè non è qualcosa che noi possiamo regolare a nostro piacimento) è una realtà (cioè un dato con cui bisogna fare i conti). Ma ha delle conseguenze che devono essere gestite non dalle forze del mercato, ma attraverso una struttura del Governo riformata che sia strategica e produttiva (quindi non uno statalismo generico, ma una struttura di governo riformata che sia strategica e produttiva). Blair fa capire cosa intende quando, poco più avanti, osserva che “In tutto il mondo c’è un nuovo modello di governo che compete con la nostra nozione di democrazia occidentale”; e ci ricorda, così, il rilievo cruciale della questione istituzionale in tutte le cosiddette “democrazie liberali” dell’Occidente Ma la finestra più importante e nuova la apre quando ammonisce: “L’unica via per uscire dal Cul de sac del populismo è capire che la causa per la globalizzazione e l’interdipendenza non avrà successo se non affronteremo le lamentele di quella parte della popolazione per la quale la globalizzazione è più una paura che una speranza”.
Il modo come Renzi ha raccontato quel discorso non dava conto di questa ultima frase che considero cruciale. Se la leggiamo con mente libera e capiamo bene, vi troviamo spiegati i motivi delle correzioni che dobbiamo fare.
Politico e giornalista, fa parte della presidenza di Libertàeguale. È stato parlamentare del Pci/Pds/Ds per cinque legislature. Presidente della Commissione di vigilanza Rai dal 2001 al 2005 e Presidente del consiglio d’amministrazione della Rai dal 2005 al 2009.