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di Andrea Romano

 

Il segretario dem ha il merito di avere preso sul serio la sua funzione di segretario. Ora indichi una meta verso la quale la comunità politica democratica possa cominciare a muoversi

 

Se per il Partito Democratico è stato il peggior fine settimana dal voto 2018 a questa parte, tra processi mediatici e scontri personali, è difficile sfuggire alla sostanza politica del confronto in corso al nostro interno. Un confronto che non può essere ridicolizzato con la caricatura di una famiglia disfunzionale che perde tempo a litigare mentre il paese va a fuoco. O meglio, la caricatura può essere serenamente lasciata a chi da anni e di mestiere vive di bordate contro il Pd. Ma almeno tra chi partecipa, in qualunque ruolo, alla vita della comunità politica dem dovrebbe esservi la responsabilità condivisa di prendere sul serio un confronto che è ovviamente e banalmente politico.

Perché se il Pd è un partito autenticamente democratico e non l’espressione di un padrone o la longa manus di una società privata – come amiamo ripetere e com’è nella realtà dei fatti – la sua natura non può che esprimersi anche attraverso il confronto aperto tra le rappresentazioni e le culture legittimamente diverse che insieme contribuiscono alla vita della nostra comunità politica.

Il problema inizia quando il confronto diventa conflitto potenzialmente dirompente, come sta accadendo in queste ore. E qui la soluzione non può essere la mozione degli affetti, l’appello sentimentale a “volerci bene” o peggio ancora la ramanzina di chi ci intima perentoriamente di dedicarci all’opposizione lasciando perdere il resto. Siamo tutti impegnati a fare opposizione, siamo tutti legati da un vincolo sentimentale verso il Pd e siamo tutti rispettosi delle emozioni che attraversano la politica. Eppure il nodo resta. E quando il confronto rischia di diventare conflitto spetta a chi è titolare di leadership politica, tanto più perché legittima e chiaramente conquistata sul campo delle primarie, assumere un’iniziativa adeguata all’emergenza nella quale stiamo precipitando. Bene dunque che Nicola Zingaretti abbia annunciato la volontà di ricucire “per fare un passo avanti insieme”, come ha dichiarato questa mattina. L’auspicio è che questo passo avanti coincida con l’indicazione di una direzione di marcia lungo la quale avviare il Partito Democratico nel tempo probabilmente lungo che ci separa dalle elezioni legislative.

Perché se Zingaretti ha il merito di avere preso sul serio la sua funzione di segretario, è anche vero che spetta a lui a sciogliere il principale nodo strategico che abbiamo di fronte: il Partito Democratico dev’essere la “costola di sinistra” di una coalizione di forze politiche che si predisponga a rinverdire la strategia degli anni Novanta (favorendo la creazione di spin-off centristi come quello che sta preparando Calenda, di nuovi partiti ecologisti e di quant’altro possa sommarsi strada facendo) oppure il Partito Democratico dev’essere la casa di tutti i riformisti italiani e dunque la forza di alternativa che persegue la stessa vocazione maggioritaria che oggi ha nei fatti realizzato Salvini?

Quello che può suonare come un distinguo tra formule politicistiche nasconde invece la vera sostanza del confronto in corso dentro il Pd. Perché è evidente che resuscitare la strategia coalizionale, appaltando al nostro esterno i temi liberali e dei nuovi diritti, restringerebbe il Pd dentro i confini della sinistra tradizionale privando molti suoi elettori di cittadinanza. Così com’è evidente che rilanciare la “vocazione maggioritaria” richiederebbe un investimento cospicuo di energie e iniziative politiche, anche solo per adeguarla ai “tempi nuovi” nei quali il contesto istituzionale e di legge elettorale sembrano spingere per il ritorno al passato (per quanto l’Europa occidentale sia ricca di esempi nei quali una legge elettorale di segno proporzionale non impedisce a nessuno di perseguire con successo vocazioni maggioritarie).

Tra i due corni di questo dilemma, spetta al segretario del Pd indicare una meta verso la quale la comunità politica democratica possa cominciare a muoversi. Perché Zingaretti ha vinto e bene sulla base di due presupposti: la promessa di discontinuità e la convinzione comune che il voto fosse imminente. Il primo punto è stato portato a casa, con piena legittimità. Il secondo pare invece svanire, mentre la legislatura prosegue. Ed è oggi, dunque, il momento per Zingaretti di segnare un possibile punto di approdo sulla mappa della politica: perché le elezioni potrebbero non essere dietro l’angolo, perché il Pd deve evitare di essere subalterno ai tempi definiti da altri e anche perché è opportuno impedire anche per questa via che il confronto politico diventi conflitto ingovernabile.

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