di Marco Piccolino Boniforti
Il green deal europeo è una biga con almeno due cavalli: quello della digitalizzazione e quello della “trasformazione verde”. Non a caso, a Bruxelles, nei gabinetti dei rappresentati di Commissione e Parlamento, si parla già da tempo di “twin transition”, o transizione gemella.
Al centro di molti dibattiti c’è, com’è noto, la legittima preoccupazione per il futuro dell’umanità in un contesto di cambiamento climatico dagli esiti ancora incerti. La consapevolezza che questo cambiamento sia primariamente il frutto dell’attività umana dell’era industriale può forse alzare l’asticella del nostro senso di responsabilità, ma poco toglie o aggiunge all’urgenza di elaborare strategie di adattamento e mitigazione, a fronte di modificazioni negli ecosistemi che sono già sotto i nostri occhi.
Eppure l’urgenza della twin transition non è motivata esclusivamente dal voler consegnare una “casa comune” ancora abitabile alle generazioni future. Se l’Europa si sta muovendo su questo fronte più velocemente di altri attori è perché, assai più di altre regioni del globo intravede, oltre ad un potenziale vantaggio competitivo nell’adattamento dei modelli produttivi e di consumo, anche una serie di rischi legati alla presenza assai limitata di materie prime e di combustibili fossili all’interno dei propri confini.
Mentre in passato a questa carenza si sopperiva grazie alla capacità dei singoli paesi europei, e dell’Unione nel suo insieme, di assicurarsi l’approvvigionamento di beni energetici e altre materie da fornitori esterni, i cambiamenti degli ultimi anni negli equilibri internazionali hanno messo pesantemente in discussione questo modello.
Il presentarsi sullo scenario globale di nuove classi medie, con stili di vita consumistici e una certo agio economico, provenienti da quelli che una volta erano chiamati “paesi in via di sviluppo” ha determinato una riorganizzazione, ancora in corso, della domanda e dell’offerta delle materie prime, energetiche e non. La certezza degli europei di poter contare su forniture affidabili in virtù della propria capacità di spesa si è rapidamente sgretolata. E non ci sono elementi per ritenere che la posizione di privilegio persa si potrà recuperare nel futuro prossimo.
La narrazione poi che il vessillo della democrazia possa rappresentare un valore agli occhi dei fornitori storici o potenziali è una pia illusione: quando il resto del mondo pensa all’Europa, è più fresca la memoria del colonialismo che quella degli ideali della rivoluzione francese, o dell’Atene di Pericle.
Le strategie di mitigazione del rischio (il “de-risking” spesso citato da Von der Leyen) possono sì contemplare una diversificazione degli approvvigionamenti, la stipula di accordi con paesi terzi e l’elaborazione di misure protezionistiche, ma in un contesto globale che viene spesso definito di “VUCA” (volatility, uncertainty, complexity and ambiguity), l’autonomia di funzionamento (il “de-coupling”) rappresenta, almeno a livello psicologico, l’opzione più rassicurante.
Le attività produttive sono un tassello fondamentale della strategia europea, anche perché senza l’iniziativa privata e il relativo capitale i risultati della transizione sarebbero di entità pressoché trascurabile. Poiché tuttavia la burocrazia non si rapporta quotidianamente con le imprese, ha individuato due messaggeri della transizione: il sistema bancario del credito da una parte; le grandi aziende che possono influenzare le proprie catene del valore dall’altra. Sono però le PMI, motore del tessuto produttivo continentale, il vero protagonista di questo processo.
I 23 milioni di PMI europee raprpesentano il 99.8% delle attività imprenditoriali di tipo non finanziario e creano circa due terzi degli impieghi disponibili (EIB 2022). Basta questo dato ad evidenziare perché la twin transition non si realizzerà senza un coinvolgimento pieno e totale delle piccole e medie imprese.
Eppure molte imprese fanno fatica a percepire l’importanza della trasformazione di processo e culturale che stiamo vivendo. I motivi sono tanti, tutti legittimi. Tranne in pochi casi, sarà quindi l’obbligo (normativo e del mercato) a guidare gli adeguamenti che vengono richiesti da Bruxelles.
Da una parte, la BCE preme sugli istituti di credito perché, nel determinare il costo del denaro dei finanziamenti, tengano in considerazione la capacità delle imprese di produrre reporting non finanziario (anche detto di sostenibilità); dall’altra, le grandi aziende, cui sono richiesti standard più elevati di reportistica, dovranno necessariamente pretendere un corrispondente livello di trasparenza e contabilizzazione ai principali partner delle catene di fornitura e distribuzione.
In questo scenario, il rischio reale per le PMI che non si siano dotate degli strumenti necessari (culturali, prima che operativi), è che perdano molti punti, nel giro di poco tempo, sia sul fronte del credito che su quello dei mercati di riferimento.
Le ricadute di ciò si avranno sul PIL ma soprattutto sulla qualità e quantità dell’occupazione: se lo spazio lasciato vuoto da queste PMI verrà riempito da multinazionali, l’attenzione che queste ultime avranno per soggetti e territori sarà diversa, verosimilmente inferiore.
Le imprese europee non brillano per capacità di aggregazione: la fiducia, il raggiungimento di un consenso e il lavorare su obiettivi condivisi richiedono volontà, fatica, e senso del bene comune. Tuttavia, gli adeguamenti necessari ad affrontare la sfida energetica e le sfide collegate, che sono frutto della congiuntura geopolitica ed ambientale, sono tali da non permettere che ogni azienda si muova con le proprie sole forze e in ordine sparso.
La governance interna delle imprese non è un elemento secondario: come sarebbe possibile infatti che più imprese collaborino tra di loro in maniera sinergica, se al suo interno ogni impresa non può avvalersi di una solida alleanza tra tutti i collaboratori? E una tale alleanza interna, ancora una volta, si costruisce su volontà, fatica e senso del bene comune, in direzione di responsabilità condivisa, potere decisionale condiviso, benefici economici condivisi.
Saremo dunque in grado, in Europa, di “esportare” un po’ di democrazia dal mondo istituzionale a quello imprenditoriale?
Le associazioni di categoria, per via del loro ruolo, possono e devono facilitare questo delicato passaggio.
Si tratta di identificare gli strumenti adatti per comunicare alle imprese che la twin transition, che è una necessità strutturale, se non è affrontata da soli, può diventare un’opportunità trasformativa per il benessere delle aziende, per l’economia europea e per rinnovare il tessuto sociale del continente.
Marco Piccolino Boniforti (1981) è un microimprenditore nel campo delle interfacce uomo-macchina. Dopo studi umanistici e tecnici in Austria, Italia e Spagna, ha svolto un dottorato di ricerca presso l’Università di Cambridge sulla modellazione al computer del riconoscimento della lingua parlata. E’ interessato alla governance di digitalizzazione e automazione per il futuro del lavoro e la giustizia sociale nel contesto europeo e globale. Vive e lavora a Bergamo.