di Giovanni Cominelli
Dopo gli innumerevoli allarmi lanciati da studiosi di demografia e, in particolare, dal presidente dell’ISTAT Giancarlo Blangiardo, pare che la politica, estenuata da giochi di politics a somma zero, abbia finalmente deciso di affrontare una questione scottante di politicy: quella dell’inverno demografico. Già Renzi si era fatto avanti l’anno scorso con la proposta del Family Act. Ora il presidente del Consiglio Conte la vuole immettere nell’Agenda 2023 e Elena Bonetti, Ministra per la Famiglia e le Pari opportunità, sta cercando di darle gambe, attraverso l’adozione di precise misure, di cui i media hanno già dato ampie anticipazioni. Al netto del provincialismo da neo-parlanti, per il quale i provvedimenti-chiave della politica italiana si devono ormai compulsivamente denominare “Act”, è aperta la discussione sulla capacità di tali provvedimenti di invertire le tendenze ormai accentuate al declino demografico. Si riuscirà a passare dall’inverno ad una nuova primavera?
Non si nasce più. Le ragioni
Le politiche dipendono dall’individuazione delle cause.La storia del secondo dopoguerra ci racconta di un intreccio tra cause socio-economiche e motivazioni culturali della caduta di natalità.
Ma qual è la gerarchia tra di loro? E, pertanto, che cosa si deve fare per eliminare le une e le altre? O, forse, alcune sono ineliminabili con i soli strumenti delle politiche?
Le cause socio-economiche sono ben note, almeno agli studiosi. E lo sono anche alla politica, benché non abbia prodotto nessun “Act” conseguente.
Una società più contadina che industriale ha prodotto figli in grande quantità fino alla seconda guerra mondiale. Fino al 1951 gli addetti all’agricoltura erano ancora circa il 44% della popolazione attiva. Il passaggio alla fabbrica e al terziario ha favorito l’accesso delle donne al lavoro, ma ne hanno scoraggiato e ostacolato la maternità. Lavoro, carriera e maternità sono sempre stati e sono a tutt’oggi difficilmente conciliabili. Il mondo della produzione e del lavoro non è accogliente per le madri.
I datori di lavoro hanno sempre dimostrato scarsa sensibilità sociale, civile e nazionale al riguardo. E i governi, a loro volta, non sono mai stati solerti. Se ogni Stato membro dell’Unione europea deve garantire almeno al 33% dei bambini un posto in asili nido o in strutture per l’infanzia, l’Italia raggiunge questa percentuale solo in alcune Regioni del Nord. Il Sud resta arretratissimo. Per di più, l’offerta di tali servizi è per il 60% privata ed è molto costosa. Lo Stato, cioè la politica, preferisce dare soldi ai pensionati. Quello della denatalità, dunque, non è un destino naturale, è l’effetto di scelte dei governi. Oggi, gli elettori sono 51 milioni, i giovani elettori sono soltanto 9 milioni e mezzo. Per una politica china sul solo presente, conta la platea elettorale più larga. La crisi economica e finanziaria dal 2008 in avanti ha precarizzato pesantemente il mercato del lavoro giovanile. Donde il differimento crescente della maternità fino ad oltrepassare il limite biologico, che oscilla attorno ai 44-45 anni.
E’ cambiata la cultura. Mondo del lavoro e politica in ritardo
Basta tutto ciò a spiegare la crisi demografica italiana? Non pare. Essa nasce dalla crisi dei modelli culturali relativi alla procreazione. I movimenti di emancipazione della donna del dopoguerra e di liberazione femminista degli anni ’70 hanno promosso la cultura della realizzazione di sé, il rifiuto del primato ontologico del maschio, la critica alle strutture familiari tradizionali.
Poiché l’evoluzione biologica ha distinto un ramo-maschio e un ramo-femmina per quasi tutte le specie animali, compresa quella dell’homo sapiens, inchiodando la femmina ad un destino biologico diverso e più pesante di quello del maschio – la lingua spagnola definisce lo stato della femmina incinta un “embarazo” –, i movimenti di liberazione della donna degli anni ’70 si sono ribellati ai condizionamenti culturali del destino biologico o rifiutando la maternità o, più spesso, chiedendo al partner e alla società intera di farsi carico comune dell’impresa procreativa.
Rispetto a tale richiesta, occorre prendere atto che nell’universo giovanile maschile è in corso un mutamento culturale, che assume i sacrifici e le limitazioni della maternità come una scelta comune e condivisa dell’esercizio della paternità. Restano, invece, in ritardo grave il mercato del lavoro, l’organizzazione dell’ Welfare, l’amministrazione statale, la politica.
Il narcisismo e la sfida dell’integrazione
Il presidente del Censis, De Rita, osserva, tuttavia, in una recente intervista al Sussidiario, che, quand’anche migliorassero gli interventi pubblici, ciò non basterebbe a far uscire dall’inverno demografico. Perché sono prevalsi il “narcisismo di massa”, il rifiuto di “fare sacrifici per proiettare in avanti, attraverso i figli, le proprie speranze”, la “dittatura dell’io”. Così si è affermato un paradigma sociale “segnato dalla tendenza a rinviare i momenti di passaggio alla vita adulta, soprattutto la scelta coraggiosa di diventare genitori”. Dal punto di vista della cultura prevalente, “fare figli è ritenuto un salto nel buio”. Se questa è la diagnosi, De Rita afferma che occorre recuperare il senso della comunità e della speranza collettiva. E cioè?!
In realtà, la decisione di fare figli è una scelta esistenziale intima e profonda, che nasce dalla percezione del proprio destino nella storia del mondo. Nasce da un progetto di vita. Ed ha a che fare con la propria storia familiare antecedente, con la struttura e la qualità dei rapporti familiari pre-esistenti. Chi ha avuto una cattiva esperienza filiale può rifiutare di fare figli oppure, proprio perciò, essere spinto a farne in proprio. I moventi personali contano assai più dei condizionamenti socio-economici. Solo che nessun’autorità esterna può entrare nel sacrario delle scelte intime: né Dio né Patria né Famiglia, a meno che i suoi imperativi siano consapevolmente incorporati nel progetto di vita. Non più. Può solo facilitare la scelta di fare figli, ma non può obbligare. Solo nei Paesi totalitari lo Stato può decidere di violare quel sacrario per obbligare a fare figli o per vietarlo. Cina docet!.
Tuttavia, se la scelta di fare/non fare figli resta rigorosamente privata, la somma delle scelte individuali produce conseguenze pubbliche. Nel nostro caso, l’effetto è il declino demografico e un mutamento graduale, ma irreversibile, del paesaggio antropologico. Detto più piattamente: gli abitanti dell’Italia nei decenni a venire avranno sempre più un altro colore della pelle. Poiché non risulta che neppure coloro che temono questa eventualità come una catastrofe si vogliano impegnare a procreare almeno due figli per donna, ne consegue che la civiltà che abbiamo ereditato è a rischio di estinzione. A meno che… A meno che siamo in grado di generare culturalmente chi arriverà a riempire i nostri vuoti. Si chiama educazione/integrazione. Questa è la sfida di civiltà e di civilizzazione del nostro tempo.
(Pubblicato su www.santalessandro.org il 15 febbraio 2020)
E’ stato consigliere comunale a Milano e consigliere regionale in Lombardia, responsabile scuola di Pci, Pds, Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola, membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi e del CdA dell’Indire. Ha collaborato con Tempi, il Riformista, il Foglio, l’ Avvenire, Sole 24 Ore. Scrive su Nuova secondaria ed è editorialista politico di www.santalessandro.org, settimanale on line della Diocesi di Bergamo.
Ha scritto “La caduta del vento leggero”, Guerini 2008, “La scuola è finita…forse”, Guerini 2009, “Scuola: rompere il muro fra aula e vita”, BQ 2016 ed ha curato “Che fine ha fatto il ’68. Fu vera gloria?”, Guerini 2018.