di Danilo Di Matteo
Il 31 ottobre 1517 il frate agostiniano Martin Lutero affiggeva sulla porta principale della chiesa del castello di Wittemberg le sue 95 tesi contro la vendita delle indulgenze: non dalle opere – e quindi neppure dalle indulgenze – deriva la salvezza, bensì dalla grazia di Dio. È la grazia che “giustifica” (rende giusto) un peccatore come l’uomo. Era l’inizio della Riforma protestante. E, per alcuni storici, è anche l’inizio dell’età moderna. Proprio a quel professore di teologia di stampo tardo-medioevale toccava inaugurare un nuovo capitolo della vicenda umana, non solo occidentale.
Vano sarebbe ragionare in termini di causa ed effetto sul nesso fra modernità e protestantesimo. Si tratta piuttosto di un rapporto circolare. Eppure le due vicende paiono strettamente intrecciate e, anzi, inestricabili. La modernità-nazione si caratterizza, per l’appunto, per la dimensione prevalentemente nazionale delle nuove realtà statuali. E le chiese protestanti si organizzeranno soprattutto su scala nazionale. E tuttora è quella la dimensione essenziale delle realtà religiose scaturite dal protestantesimo storico, pur in presenza di importanti organismi internazionali volti a federarle e a coordinarle.
A livello storico-politico, la rivoluzione telematica e il crollo del Muro di Berlino del 1989, con la globalizzazione, hanno posto le basi della modernità-mondo. Ancora ci sono le nazioni, ma costituiscono sempre meno gli snodi decisivi, rappresentati piuttosto dalle grandi regioni geopolitiche planetarie. Il dramma del vecchio continente, del resto, consiste proprio nella necessità, pena l’irrilevanza, di un soggetto politico europeo, pur nell’assenza, al momento, di un vero demos europeo. Ecco il senso della sfida attuale: trovare il modo per coniugare la presenza di una varietà di popoli con una dimensione politica continentale. Una sfida ineludibile, considerando anche la pluralità e la consistenza, all’interno dei vari contesti nazionali, di comunità etnico-religiose distinte. Ed è in fondo, per analogia, anche la sfida del protestantesimo storico. Già anni addietro un filosofo come Jürgen Habermas notava come la “vecchia” chiesa di Roma e le grandi centrali evangelicali (le chiese pentecostali, ad esempio, e altri gruppi, pur figli della Riforma, sorti in seguito alle ondate più recenti del “risveglio” religioso, non di rado venati o caratterizzati da spinte fondamentaliste o integraliste) fossero più preparate alla dimensione globale del mondo di oggi. Con le chiese protestanti storiche che, invece, faticano a uscire dall’ormai angusto spazio nazionale e, dunque, dalla modernità-nazione.
Del resto, in crisi è l’insieme dei momenti e delle istituzioni della costellazione nazionale: la democrazia rappresentativa, la laicità dello Stato e della scuola, l’etica pubblica. Da qui l’idea, evocata proprio da Habermas, di una “costellazione post-nazionale”. Un’idea, naturalmente, da riempire di contenuti. E a ciò sono chiamati i singoli, i partiti, i gruppi religiosi, con le loro differenze e la loro pluralità, compresi gli uomini e le donne eredi più o meno prossimi di quel frate agostiniano di cinquecento anni or sono.
Psichiatra e psicoterapeuta con la passione per la politica e la filosofia. Si iscrisse alla Fgci pensando che il Pci fosse già socialdemocratico, rimanendo poi sempre eretico e allineato. Collabora con diversi periodici. Ha scritto “L’esilio della parola”. Il tema del silenzio nel pensiero di André Neher (Mimesis 2020), Psicosi, libertà e pensiero (Manni 2021), Quale faro per la sinistra? La sinistra italiana tra XX e XXI secolo (Guida 2022) e la silloge poetica Nescio. Non so (Helicon 2024) È uno degli autori di Poesia e Filosofia. I domini contesi (a cura di Stefano Iori e Rosa Pierno, Gilgamesh 2021) e di Per un nuovo universalismo. L’apporto della religiosità alla cultura laica (a cura di Andrea Billau, Castelvecchi 2023).