di Claudia Mancina
Les Russes veulent-ils, veulent-ils la guerre? Era il ritornello di una canzone pacifista (credo che i versi fossero di Evtushenko) che cantavamo quando eravamo comunisti, e pensavamo che i guerrafondai fossero gli americani. Guerrafondai e imperialisti.
Con fatica e dolore abbiamo elaborato il fatto che i russi, cioè i sovietici, erano altrettanto imperialisti, e che la pace si fondava soltanto sulla deterrenza nucleare. Fa male al cuore vedere folle di giovani che la pensano ancora così, e ancora sono contro la Nato, dimenticando perfino Berlinguer – non certo un filoamericano neoliberista – che si sentiva più al sicuro sotto l’ombrello dell’alleanza atlantica.
E fa male vedere il sindacato di Novella e di Lama alla testa di una manifestazione che, in nome della pace, propone la resa ad un paese aggredito. Ma se il pacifismo è questo, io non sono pacifista. Se essere per la pace significa voltare le spalle a un popolo che tenta una resistenza disperata, io non sono per la pace. Come non lo erano tutti i popoli che hanno combattuto per la libertà dell’Europa, con le armi in pugno.
Non abbiamo bisogno di crociate, ha scritto Angelo Panebianco sul Corriere, ma dobbiamo avere le idee chiare: c’è una aggressione, c’è un aggressore, e questa è la verità dei fatti. Poi potremo analizzare il processo che ha portato qui, e anche notare dove l’Occidente ha sbagliato, a volte per ignavia, a volte per cecità, a volte per arroganza. Ma non possiamo certo aderire alla ricostruzione pseudo-storica di Putin.
E non possiamo cadere nel solito senso di colpa dell’Occidente, che sembra doversi scusare di tutto, mentre dovrebbe vantarsi del fatto che al suo interno si possono sostenere tutte le idee possibili, anche quelle degli avversari, senza essere arrestati o silenziati in alcun modo. E si può sostenere perfino che l’Occidente è colpevole se i paesi dell’est europeo hanno chiesto l’adesione alla Nato, perché avevano e hanno paura della mai sopita pulsione imperiale dei russi.
Domani ci chiederemo se non fosse possibile tenere più legata la Russia all’Europa, con legami politici e non solo commerciali. Se la fine dell’Urss non richiedesse una maggiore attenzione, una maggiore solidarietà. Forse. Comunque domani. Oggi dobbiamo affrontare l’aggressione di Putin, che con tutta evidenza è rivolta all’Europa stessa, ai suoi equilibri e alla sua organizzazione, basata sulla democrazia liberale.
Questo non significa che ci siano solo le armi. La diplomazia è l’arma principale, e va usata in tutti i modi, anche quando sembra che non ci sia speranza. E’ quello che tutti i leader democratici stanno facendo. Poiché non è credibile che Putin sia impazzito, dobbiamo sperare che si arrivi a qualche risultato positivo.
Ma, anche nella migliore delle ipotesi, è chiaro che la storia non finirà con un negoziato. I problemi resteranno sul tavolo. Perché in questione c’è quello che per troppo tempo non abbiamo voluto o potuto vedere: la costruzione di un nuovo ordine mondiale.
Lo schema della guerra fredda non funziona più, perché non ci sono due grandi giocatori che si sfidano ma alla fine si intendono. Per questo la fantasia di molti sta correndo al passato pre-guerra fredda: il 1914, il 1939. Ma non si tratta neanche di questo.
La globalizzazione non è stata solo un processo commerciale, ma ha distrutto i precedenti equilibri geopolitici senza ancora crearne di nuovi. I due grandi ex-imperi, americano e russo, sono entrambi indeboliti e in declino. L’Europa è in cerca del suo ruolo nel mondo (si dovrà dire che Putin le ha dato un grande aiuto, come testimonia l’improvviso mutamento della politica estera e militare della Germania). Ma c’è la Cina. Che ruolo avrà la Cina nel nuovo ordine mondiale? Possiamo davvero pensare che sia il nuovo nemico dell’Occidente, in una nuova versione della guerra fredda?
L’obiettivo non è certo quello di un mondo kantiano, per usare un riferimento diffuso, spesso in modo erroneo. Un mondo Kantiano, secondo Kant, sarebbe un mondo di tutte democrazie (lui diceva repubbliche, ma semplifichiamo). Abbiamo creduto, dopo la fine della guerra fredda, che i mercati e la globalizzazione avrebbero portato la democrazia a trionfare dappertutto. Non è così, perché ci sono culture e tradizioni nazionali secolari che non spariscono.
Da un lato c’è certamente una spinta universale alla libertà, dall’altro questa spinta può essere frenata o comunque piegata in forme diverse dalle culture storiche. Dobbiamo dare alla storia il tempo di fare il suo corso; dobbiamo accettare che possa sorprenderci. E mentre si stringono i rapporti tra le democrazie, dobbiamo coltivare anche rapporti pacifici con gli altri paesi, con fiducia nelle idee di libertà che sono la vera forza dell’Occidente.
Già docente di Etica all’Università “La Sapienza” di Roma, fa parte della presidenza di Libertàeguale. Deputato dal 1992 al 1994 e dal 1996 al 2001 nel gruppo Pds/Ds, è membro della direzione nazionale del Partito democratico. Il suo ultimo libro è “Berlinguer in questione” (Laterza, 2014)