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di Amedeo Lepore

 

Il residuo fiscale è un termine coniato nel 1950, in un saggio dal titolo “Federalismo ed equità fiscale”, dal premio Nobel James M.Buchanan, per indicare la differenza tra il contributo fornito da ogni cittadino per il finanziamento dell’intervento pubblico e i vantaggi che ottiene in forma di spesa e servizi.

Il concetto fu introdotto, a fini redistributivi, per promuovere uno spostamento di risorse dai territori più prosperi a quelli meno dotati economicamente degli Stati Uniti, facendo in modo che l’iniziativa pubblica assicurasse, in base a un principio di equità orizzontale, parità di condizioni a tutti i cittadini.

Secondo Buchanan, “un individuo dovrebbe avere la certezza che dovunque desideri risiedere nella nazione, il trattamento fiscale complessivo che riceverà sarà approssimativamente lo stesso”, senza che questo implichi un trattenimento di risorse dove vengono versate.  Al contrario, “il principio di equità richiederà che il governo centrale intraprenda un’azione per trasferire fondi da un’area all’altra”, in quanto “l’ideale di parità di trattamento per gli uguali è superiore a quello dell’equazione tra unità di Stato organiche”.

 

Il regionalismo asimmetrico del governo…

Con l’avvio del “regionalismo asimmetrico” da parte del governo, paradossalmente, si sta verificando un doppio ribaltamento di questo principio. Da un lato, si vuole mantenere il saldo fiscale nelle Regioni più ricche e, dall’altro, si mette in discussione il ruolo riequilibratore dello Stato nazionale. E così il federalismo diventa una leva per affermare un sempre minore grado di responsabilità nazionale e negare la possibilità a tutti i cittadini italiani di godere delle medesime prestazioni connesse a diritti fondamentali, in nome di una visione isolazionista e di un gretto particolarismo.

Altra cosa è una concezione federalista seria, proiettata all’unità del territorio nazionale e alla promozione delle aree in ritardo, che dovrebbe fornire linfa a un disegno inedito,legato non tanto ai confini nazionali quanto a una nuova prospettiva europeista. Perfino la legge 42 del 2009, il cosiddetto “federalismo fiscale”, aveva previsto due interventi prioritari – come quello per i livelli essenziali delle prestazioni, ovvero per la determinazione dei fabbisogni standard nazionali, e per l’attivazione del fondo di perequazione tra le diverse parti del Paese, finanziando integralmente le funzioni fondamentali – che dovrebbero essere il punto di partenza di questo percorso.

Tuttavia, anziché l’attribuzione di forme particolari di autonomia, che dovrebbe avvenire in un ambito definito di contenuti, si intende favorire l’acquisizione di poteri su materie di rilevanza essenziale, come l’istruzione e la sanità, e l’appropriazione di risorse, che rappresentano gran parte del prelievo fiscale in Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna. In barba al fatto che l’attuazione del terzo comma dell’art. 116 della Costituzione non può essere in alcun modo lesiva dell’unitarietà dello Stato, dei principi di uguaglianza dei cittadini e di solidarietà tra territori che la caratterizzano.

A questo proposito, un grande servitore dello Stato come Paolo De Ioanna si domandava se si aprissero le porte a un modello di federalismo “forte e dunque relativamente aperto ad una rilevante divaricazione tra le prestazioni pubbliche e il suo correlato della spesa pubblica per abitante o ad un modello di tipo cooperativo o solidaristico”. La risposta a un’ipotesi improvvida, messa in evidenza da Adriano Giannola e Gaetano Stornaiuolo, non può ridursi a ricavare un qualche spazio di autonomia di manovra o, peggio, a riproporre un separatismo del Sud, che lo condannerebbe all’assoluta marginalità.

 

… danneggia l’insieme dell’Italia

Il peggiore danno che questa “autonomia differenziata” può fare, tuttavia, è all’insieme dell’Italia e alla sua capacità di reggere al confronto internazionale.  In tempi di globalizzazione, non ci si può rifugiare nelle terre di Lilliput. Occorre invece compiere l’unità nazionale, attraverso l’unificazione economica di Nord e Sud, l’obiettivo perseguito da un settentrionale come Pasquale Saraceno.

Sull’altare di un accordo di governo a scapito del Mezzogiorno, sembra già dimenticata la norma del 34% della spesa pubblica in conto capitale da destinare al Sud. Eppure, insieme a una riflessione matura sul rapporto tra Stato e Regioni e a una profonda innovazione istituzionale nel solco dei valori e della forza di una democrazia coesa, bisogna riprendere gli interventi per gli investimenti e l’occupazione, l’unica alternativa allo spreco delle risorse pubbliche, l’unica possibilità di aumentare la produttività e l’efficienza dei territori meridionali.

 

Serve invece un progetto nuovo di unità nazionale

Giorgio Ruffolo, descrivendo “Un Paese troppo lungo”, concludeva così: “Realizzare attorno a un progetto nuovo di unità nazionale una vasta rete di solidarietà è la risposta più efficace al messaggio populista e privatista. È il segno che la gente, oggi abbandonata all’autoritratto sterile dei sondaggi, può ancora trasformarsi, riconoscendosi nel suo passato, impegnandosi nella costruzione del suo futuro, in popolo”.

Questa è la strada impervia ma ricca di sorprese che dovremmo seguire, nell’interesse del Nord e del Sud dell’Italia.

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