di Giorgio Armillei
La nomina a giudice della Corte Suprema USA di Amy Coney Barrett costituisce uno dei fatti più importanti, secondo soltanto alle elezioni di presidenziali, della situazione politica americana. È nota la grande influenza della Corte su ogni aspetto della società statunitense, dai diritti fondamentali alle politiche per la salute, dall’economia alle politiche dell’immigrazione. Ed è altrettanto noto come i nove giudici riservino molte sorprese rispetto all’orientamento ideologico di chi li ha nominati, a conferma del buono stato di salute del modello americano di separazione dei poteri. Dal che le risposte della giudice Barrett nel corso delle sedute dell’apposito comitato del Senato americano vanno inserite nel contesto di questa tradizione giuridica. Il punto non è l’orientamento ideologico del singolo giudice, ognuno ha il suo e la neutralità non esiste: il punto è la verifica del grado di indipendenza e imparzialità, oserei dire della personalità del giudice la cui nomina deve essere confermata.
Tuttavia, la discussione sui giornali italiani a proposito di questa nomina mi sembra stia prendendo una strada diversa, per un verso più tecnico giuridica ma per l’altro densa di significati politico istituzionali più ampi. Vediamone alcuni passaggi.
C’è chi sostiene che l’ingresso della Barrett nella Corte vada accolto con favore non tanto per i suoi orientamenti ideologici, nel panorama americano sicuramente conservatori, quanto perché rafforzerebbe, in virtù delle sue posizioni dottrinali in materia di teoria del diritto e dell’interpretazione costituzionale, la componente cosiddetta originalista della Corte. In altre parole, la componente che ritiene indispensabile trattare la costituzione e il diritto costituzionale a partire da un riferimento stretto al testo e alle intenzioni di chi lo redasse, escludendo ogni riferimento extratestuale che non sia in grado di rintracciare negli enunciati della costituzione il suo fondamento. Insomma il testualismo, che di questo orientamento costituisce la versione moderata, riduce il diritto al testo ed espunge dal percorso interpretativo ogni passaggio che scivoli verso l’attivismo giudiziario. Conduca cioè a un ruolo rilevante del giudice interprete nell’applicazione del diritto al caso concreto.
Considerando che la frattura tra originalisti ed evoluzionisti non coincide affatto con quella tra conservatori e liberal, il punto da sottolineare è un altro. Chi vede con favore la nomina della Barrett lo fa perché il suo ingresso concorrerebbe e ridurre l’attivismo giudiziario e a riportare in primo piano il ruolo degli organi rappresentativi nella produzione del diritto. I giudici non devono essere “superlegislatori non eletti”, come li definisce Marco Olivetti su Avvenire del 15 ottobre scorso, ma debbono applicare un diritto preesistente. Ecco che in questa visione del ruolo dei giudici nella ricostruzione e applicazione del diritto, Roe vs Wade e Obergefell vs Hodges, le due sentenze storiche sull’interruzione volontaria della gravidanza e sul matrimonio tra persone dello stesso sesso, non sono altro che creazioni scaturite dalle personali propensioni ideologiche dei giudici che le hanno redatte e sostenute, essendo del tutto prive di ogni riferimento al testo scritto della costituzione.
La questione chiama in campo complesse e fondamentali questioni dottrinali. Non è però difficile capire come una visione originalista o anche strettamente testualista sia la traduzione, o se si vuole la premessa, di una riduzione del diritto a comando del potere politico, sia esso il potere costituente sia esso quello legislativo dei parlamenti. Non c’è diritto se non negli enunciati che esprimono i comandi coattivi del sovrano politico, Bobbio avrebbe chiamato questa la proposizione principe del positivismo teorico. Il compito del giudice è quello di applicare deduttivamente quei comandi al caso concreto. Punto e basta.
La riduzione del diritto a prodotto della volontà del sovrano, si potrebbe dire a comando dello stato, suscita ovviamente tutta una serie di obiezioni e perplessità. A cominciare da quella per la quale nella tradizione liberale e cattolico liberale il diritto è limite all’attività dello stato e in quanto limite trova nell’operato dei giudici una modalità del suo concreto esprimersi. Una quota di attivismo giudiziario – da non confondere, immersi come siamo nel microcosmo italiano, con l’attivismo del procuratori della Repubblica che infatti giudici non sono – è dunque funzionale a un duplice obiettivo: affermare la natura pluralista delle fonti di produzione del diritto, superando i miti giuridici della modernità per usare le parole di Paolo Grossi; tutelare la funzione liberale del diritto come limite all’azione dei poteri pubblici a garanzia delle libertà individuali della persona.
Basta dare un’occhiata al retroterra culturale dei sostenitori italiani della nomina della Barrett come esempio di neutralizzazione dell’attivismo giudiziario, per dubitare che possano ritrovarsi a loro agio in questa visione monista e statalista del diritto. Più probabile dunque che questa nomina sia ben vista per ragioni di posizionamento ideologico: l’orientamento conservatore della Barrett. Una cosa del tutto legittima, si intenda bene, e persino in qualche modo fisiologica nel contesto statunitense, al di là dei comportamenti partigiani dei senatori repubblicani se si torna alla loro condotta nel caso del giudice Garland nominato da Obama. Ma di questo si tratta. E gettando uno sguardo sull’Obamacare viene il sospetto che puntando a ribaltare National Federation of Independent Business vs Sebelius del 2012 che ne aveva dichiarato la costituzionalità, si voglia sì in questo caso infilarsi nel dibattito politico, intaccando quella discrezionalità degli organi legislativi nello scegliere tra soluzioni individuali di puro mercato e soluzioni collettive di mercato regolato che dovrebbe essere invece prudentemente protetta.