di Alessandro Maran
Nelle riunioni preparatorie abbiamo discusso, per stare al titolo «terrificante» proposto da Enrico Morando, delle ragioni del crollo e dei pilastri della possibile ricostruzione. Da diversi punti di vista. Ora, se ci riesco, cercherò di stimolare quella “conversazione con il mondo” che secondo Giovanni Cominelli, è l’essenza della politica. Manco a dirlo, distogliendo, per un momento, lo sguardo dallo psicodramma di un partito, il Pd, che continua a parlare in modo ossessivo di sé stesso e del passato.
Un mondo sottosopra
Stando a quel che diceva Bismarck, uno statista deve «attendere ed ascoltare finché non sente i passi di Dio che risuonano in mezzo agli eventi; a quel punto deve balzare in piedi ed attaccarsi all’orlo della Sua veste». È senza dubbio una grande idea, ma come si fa a riconoscere i suoi passi? Come si fa a sapere che è proprio lui?
Che il mondo sia sottosopra lo dicono tutti, ma ci sono molti modi di raccontare un’era, la nostra, sempre più turbolenta.
C’è chi ritiene che le crisi che attirano l’attenzione mediatica e consumano le energie dei leader mondiali, saranno viste nel corso della storia come qualcosa di marginale, una specie di trama secondaria che alla fine sarà completamente oscurata dall’ascesa della Cina, con le sue fabbriche e il suo spirito competitivo.
C’è chi ritiene invece che l’ascesa della Cina, la crescita del tribalismo in politica e il possibile degrado della democrazia liberale, il terrorismo jihadista, il ritorno alla competizione tra le grandi potenze, non contino veramente. Perché il mondo è alla vigilia di una nuova rivoluzione industriale, stavolta una rivoluzione digitale, il cui impatto sarà più grande di quello della prima. La prima rivoluzione industriale ha cambiato il mondo rimpiazzando i muscoli umani. Ma stavolta la rivoluzione industriale si accinge a rimpiazzare il cervello umano. Qualsiasi cosa riesca a fare un essere umano, l’intelligenza artificiale sarà in grado di fare altrettanto. Meglio, però; e per tutte le questioni pratiche, i robot renderanno l’Homo sapiens obsoleto.
Inoltre, c’è chi pensa che la minaccia che più di ogni altra è destinata a definire il nostro secolo sia quella del cambiamento climatico; e che alla fine saremo costretti a destinare più attenzione e più risorse alla perturbazione del clima terreste, che avrà una maggiore influenza sull’economia globale e sulle relazioni internazionali di ogni altra forza percepibile nel mondo di oggi.
C’è anche chi ci ricorda, sebbene sia difficile da credersi in un paese come il nostro in cui c’è una vera e propria “industria dell’allarmismo” che campa sull’idea che il paese sia allo sfascio, che si stava meglio quando si stava peggio, che tutto va male e che bisogna cambiare tutto (insomma, l’armamentario di tutti i populismi), che, se si considera il benessere complessivo dell’umanità, il 2017 è stato (di nuovo) il migliore anno della storia dell’uomo. Le persone non sono mai vissute così a lungo, così bene e così liberamente; e ci invita a tenere a mente che la cosa più importante non è l’ultimo tweet di Trump. Quel che è infinitamente più importante è che oggi, prima della fine della giornata, qualcosa come 18.000 bambini che in passato sarebbero morti a causa di malattie comuni sopravviveranno, circa 300.000 persone avranno l’elettricità e altre 250.000 usciranno dalla povertà estrema.
Ovviamente, c’è del vero in ognuno di questi racconti. Non c’è dubbio che il brutale spostamento del centro di gravità globale dall’ovest all’est del mondo sia senza precedenti nella storia dell’umanità quanto a rapidità e dimensioni e che il mondo sia stato ridisegnato in modo profondissimo da questo trasferimento di ricchezza relativa e potere economico. Non c’è dubbio che la scienza e la tecnologia siano quel che conta di più. Cosi come la rivoluzione industriale ha trasformato tutto un paio di secoli fa, oggi la rivoluzione digitale sta facendo altrettanto. E dovremo allacciarci le cinture perché sarà un percorso molto accidentato. Quando cambia il modo di produzione cambia tutto. «In soli sessant’anni – ammonisce il mio amico Siagri, ceo di una nostra multinazionale tascabile che produce supercomputer Green ad elevata capacità di calcolo e ad alta efficienza energetica ed ha sede in un paesino della Carnia – il computer è passato da esecutore di programmi a sistema esperto in grado di rispondere a domande libere (quella che chiamiamo «intelligenza artificiale»); agli umani ci sono voluti milioni di anni solo per imparare a camminare».
Se si da retta a giornali e tv (e alla Coldiretti e agli oppositori del Ceta) sembra che esportiamo unicamente lenticchie e patate, invece, grazie al cielo, esportiamo macchinari, automobili, navi, aerei, piastrelle, calzature farmaci, mobili, rubinetti, valvole, compressori e servizi (assicurazioni e pensioni, telecomunicazioni, ingegneria) e potrei continuare. Non c’è dubbio poi che affrontare il cambiamento climatico sarà la sfida che caratterizzerà la nostra era. C’è una diretta correlazione tra l’innescarsi della guerra civile in Siria e la siccità che, dal 2006 al 2011, ha colpito il Paese. Un cambiamento climatico che ha aggravato i disordini sociali facendoli sfociare in una rivolta aperta che poi è diventata quella guerra ad intensità variabile che ha coinvolto anche le nazioni occidentali. E c’è da chiedersi quanto dovranno sembrare stupidi i nostri dibattiti alle generazioni future impegnate a mantenere la testa sopra il pelo dell’acqua.
Viviamo, insomma, in un mondo di cambiamenti in accelerazione, che insieme stanno rimodellando il lavoro, l’istruzione, la geopolitica, l’etica e le comunità con modalità tali che i partiti tradizionali, costruiti sulle vecchie scelte binarie destra-sinistra (capitale-lavoro, big government e small government, ecc.) non sono in grado di arginare e domare facilmente. Non per caso i grandi partiti tradizionali in tutto il mondo industrializzato stanno saltando in aria uno dopo l’altro: dal Partito repubblicano americano, che di suo ha conservato solo il nome, al Partito laburista olandese ridotto ormai al 6%.
Viviamo in un mondo in cui le persone sentono che delle forze e degli interessi che sfuggono al loro controllo stanno cambiando le loro vite. Da qui la rabbia per le disuguaglianze crescenti e il divario crescente tra le persone istruite e quelle meno istruite; lo scontento per la cattiva gestione dell’immigrazione di massa; il disagio crescente per il processo di integrazione europea, non uno «scudo» nei confronti della globalizzazione ma, invece, «l’organo di trasmissione», e la «faccia visibile» della competizione. Tutte cose che alimentano il potenziale politico ed elettorale dei movimenti populisti di destra, che sfruttano l’inquietudine, la paura e il risentimento, mentre costruiscono una narrazione di declino sociale e morale. E non c’è dubbio che, nel processo di adattamento al nuovo mondo globalizzato, ci sia stata una crisi decisiva di fiducia e di comunicazione tra le élite e la popolazione nel suo complesso. Al punto che i paragoni con gli anni Trenta non sono più cosi inverosimili.
L’ordine liberale mondiale: un’anomalia storica
Partirei da qui. L’ordine mondiale liberale in cui viviamo dal 1945 e al quale l’Italia ha preso parte con le altre nazioni europee – quando, appunto, tra gli eventi, abbiamo sentito i passi di Dio e siamo riusciti ad afferrarne l’orlo della veste – oggi, si sa, non sta tanto bene. Ma non sarebbe male tenere a mente che, come sostiene Bob Kagan, quell’ordine, il principale pilastro dell’edificio riformista, è una deviazione, un’anomalia storica. Lui l’ha definita una «historical aberration».
Il nostro, ricorda Kagan, è un periodo completamente diverso dal passato. Oggi, per esempio, ci sono più di cento democrazie e da quando quell’ordine si è imposto il numero delle democrazie è cresciuto. Prima, ovviamente, le democrazie erano un’eccezione. Anche in termini di prosperità, dal 1945 abbiamo conosciuto una crescita che ha registrato un incremento del pil del quattro per cento annuo; mentre la crescita del pil globale nel corso della storia è stata più o meno pari allo zero. Prima la maggior parte delle persone ha vissuto in condizioni di estrema povertà, ha conosciuto la dittatura; e la maggior parte della gente ha vissuto in epoche durante le quali le grandi potenze, gli imperi, erano in una condizione di guerra permanente.
Nel corso della storia, la costante è stata la guerra, non la pace. In questo periodo abbiamo certamente avuto delle guerre, ma nessun grande conflitto tra le grandi potenze come quelli che nel corso della storia, soprattutto nella prima metà del Ventesimo secolo, hanno causato così tanta distruzione. Tutte queste cose e altre ancora, ci ha ricordato Kagan, rendono l’ordine liberale non solo unico ma una vera e propria «anomalia». Eppure, proprio a causa degli incredibili successi di questo periodo, siamo arrivati a considerare tutte queste cose come se fossero normali: la conseguenza del progresso umano, dell’inevitabile evoluzione del genere umano. E abbiamo perso di vista quanto sia costato questo ordine internazionale e «quale atto di sfida alla storia e persino alla natura umana» abbia rappresentato. Una sfida, aggiungo, all’intero pensiero classico conservatore a partire da Thomas Hobbes.
Di conseguenza, in Europa ci siamo convinti che la competizione geopolitica fosse relegata al passato. Ma la geopolitica non se n’è mai andata. L’abbiamo solo «addomesticata». Quindi, abbiamo scambiato per normalità questo insieme di circostanze senza precedenti che abbiamo costruito grazie soprattutto agli Stati Uniti. L’America ha avuto, infatti, un ruolo centrale nella creazione di questo ordine. Non lo hanno costruito da soli. Hanno collaborato con gli altri. Ma è stata l’abilità degli Stati Uniti, dopo la Seconda guerra mondiale, a mettere fine ai conflitti nelle due zone più critiche del mondo: l’Europa e l’Asia orientale. Erano gli unici in grado di poterlo fare. La loro posizione geografica, la loro ricchezza, il fatto di non doversi preoccupare degli attacchi dei vicini gli hanno permesso di dispiegare in modo permanente le loro truppe all’estero, mettendo fine a questi conflitti. É stato questo sforzo a creare le condizioni che hanno permesso si realizzasse quell’ordine «anomalo» nel quale siamo vissuti.
Sfortunatamente, gli Stati Uniti si stanno allontanando sempre di più da quello che finora era stato l’obiettivo tradizionale della loro politica estera. E questo problema non ha a che fare solo con Trump. È da un pezzo che gli americani vogliono tornare alla «normalità»; che gli studiosi (da Barry Posen a Michael Mandelbaum) teorizzano quel «Restraint» che Obama ha messo in pratica per primo. Ed è da tempo che, una dopo l’altra, le amministrazioni USA fanno a gara per rassicurare gli americani che si sarebbero concentrate sulla politica interna, occupandosi di politica estera il meno possibile. Ma nella misura in cui gli Stati Uniti appaiono sempre di meno come tutori affidabili di questo ordine, le altre nazioni sono costrette a proteggersi e badare sempre di più a loro stesse. Anche perché nessuno è in grado di accollarsi il ruolo dell’America. Per dirla con Angela Merkel, «i tempi in cui potevamo fidarci completamente degli altri sono passati da un pezzo […] Noi europei dobbiamo veramente prendere il nostro destino nelle nostre mani».
L’interdipendenza: il pilastro dell’edifico riformista
Se l’Anpi non fosse in altre faccende affaccendata, ogni giorno che passa dovrebbe ricordare che l’antifascismo (come hanno rimarcato, ad esempio, Beppe Vacca e Franco De Felice) non ha riguardato solo la storia d’Italia, ma, appunto, i caratteri del nuovo ordine mondiale generato dalla guerra. Ciò che rese possibile la formazione della coalizione antifascista – con l’iniziativa di Roosevelt di gettare tutto il peso degli USA nel conflitto, di allacciare una alleanza con l’URSS, di tracciare nella Carta Atlantica una prospettiva nuova, una volta eliminati nazismo e fascismo, per i paesi europei e per il mondo nel dopoguerra – non fu solo la minaccia del dominio hitleriano, ma anche la convinzione che, con la sconfitta del fascismo, si potesse instaurare un ordine internazionale fondato sull’interdipendenza economica e su relazioni politiche multilaterali; la convinzione che questo avrebbe consentito di diffondere la crescita economica, ma anche di favorire, a livello nazionale, la combinazione di sviluppo e democrazia.
Questo programma in Occidente consentì, dopo la guerra, quel «trentennio d’oro» del keynesismo nazionale e del welfare che ha ridotto drasticamente le sofferenza causate dalla «distruzione creatrice» capitalista.
Il programma dell’antifascismo prese infatti slancio dalle esperienze riformistiche degli anni ’30 – il New Deal negli Stati Uniti, i primi governi socialdemocratici in Inghilterra, Svezia, Belgio e il Fronte popolare in Francia – e mirava a generalizzare quelle esperienze – realizzate in alternativa all’aut-aut tra bolscevismo e fascismo – e a ridisegnare gli assetti mondiali secondo il principio dell’interdipendenza, il muro portante dell’edificio riformista. In questa asimmetria con l’URSS vi è l’origine della fine precoce dell’alleanza una volta conclusa la guerra (e probabilmente del collasso del regime sovietico).
Quel programma ha ridefinito l’idea stessa di nazione, che oggi non è separabile dall’idea di cittadinanza. Oggi la cittadinanza dipende infatti dallo sviluppo e dalla democrazia e queste derivano sempre più dall’avanzare della società civile internazionale. Quel programma favorì l’intreccio fra sviluppo dei consumi e crescita della democrazia e generò la costruzione dell’Unione europea. Un disegno e di una strategia alternativi rispetto a quella di Versailles. Lo spirito del progetto di integrazione europea non è più quello di mettere di mettere il nemico di ieri – i tedeschi o i paesi ex comunisti – ai nostri piedi, ma quello di stringerlo a noi con tanto calore che ogni guerra diventi non solo impensabile, ma di fatto impossibile a causa del livello di interdipendenza che si sarebbe creato tra gli stati della comunità. Riassumo. L’ordine liberale, l’interdipendenza, l’Europa, restano le architravi dell’edificio riformista.
Il ritorno della storia
Se guardiamo all’Europa di oggi, ciò che si vede è “il ritorno della storia e della natura umana”.
Decenni dopo essere state bandite dall’Occidente, le forze oscure della politica mondiale – illiberismo, autocrazia, nazionalismo, protezionismo, sfere di influenza, revisionismo territoriale – hanno rialzato la testa. Cina e Russia hanno deluso le speranze di chi pensava che avrebbero rapidamente realizzato una transizione verso la democrazia e sostenuto l’ordine mondiale liberale. Al contrario, hanno rafforzato i loro sistemi autoritari all’interno e hanno aggirato le norme all’esterno. E, incredibilmente, con il Regno Unito che ha votato per la Brexit e gli Stati Uniti che hanno eletto Donald Trump, i principali produttori dell’ordine mondiale liberale hanno scelto di indebolire i loro sistemi. In tutto il mondo, è emersa una nuova mentalità nazionalistica, che vede le istituzioni internazionali e la globalizzazione come minacce alla sovranità nazionale e all’identità.
Sono in molti oggi, ad esempio, a sottovalutare il significato e le conseguenze dell’intervento militare russo in Ucraina. Ad un cambio di regime causato da un movimento di protesta dal basso, la Russia ha risposto annettendo la Crimea e fomentando un movimento separatista nelle regioni orientali del paese. Infrangendo il diritto internazionale e suscitando la condanna da parte della comunità occidentale, la Russia ha chiarito che gli equilibri dello spazio post-sovietico non possono essere modificati senza il suo consenso. I paesi che intrattengono con la Russia importanti relazioni economiche in settori strategici, come il nostro, sono inclini a mediare in ambito europeo per non acutizzare la tensione ed isolare Mosca. Ma la crisi ha evidenziato non solo la scarsa capacità di analisi predittiva da parte dell’Unione europea e la sua incapacità di agire come interlocutore unitario, ha evidenziato anche che la Ue e la Russia rappresentano modelli di integrazione politica ed economica – di più: due universi – che collidono.
La Russia resta un attore tradizionale ed è tornata ad essere quel che storicamente è sempre stata: la potenza conservatrice europea. E oggi tenta di cogliere l’opportunità di accreditarsi come custode dei valori della tradizione in contrasto con l’Occidente che si erge a baluardo dei diritti individuali. Ma ciò significa il ritorno all’equilibrio di potenza, il ritorno della (vecchia) storia nel cuore del continente. E dobbiamo sapere che se il principio che ha mosso Putin – la necessità di proteggere i diritti e l’incolumità della popolazione russofona – dovesse affermarsi come «normale», la giostra è destinata a ripartire: Kalinigrad si chiamava Königsberg, Pola è italiana. Gorizia, dove abito, si chiamava Görz e anche Gorica e Gurize. Dal nostro confine orientale a Mosca cambia lingua ogni venti chilometri. Ricominciamo daccapo? Tornare alla normalità significa tornare alla guerra. Puntin non è un attore tra i tanti. Quello di Putin è un altro mondo. Il mondo che avevamo lasciato alle spalle. E l’Europa, e per primi i democratici, i socialisti, i liberali, dovranno iniziare a prendere sul serio anche un’altra questione: siamo stati troppo permissivi con quei Paesi, che pur restando nella Nato e nell’Unione, sono scivolati via dalla democrazia, dichiarando il proprio illiberismo. É ora di battere un colpo. Il nostro sistema di valori è un altro pilastro dell’edificio riformista.
L’ordine social-democratico
Mi sono soffermato sulla struttura portante dell’edificio riformista, l’ordine liberale come contesto generale per la politica globale, anzitutto perché è presto per scriverne l’orazione funebre. L’ascesa delle forze e dei leader illiberali è certamente preoccupante, ma le istituzioni che abbiamo creato dopo la Seconda guerra mondiale sono molto resistenti. E la visione liberale che presuppone stati nazione che cooperano tra loro per garantirsi a vicenda sicurezza e prosperità resta oggi fondamentale così come lo è stata in ogni periodo dell’età moderna. Dopo la Seconda guerra mondiale abbiamo effettivamente ricacciato indietro la storia e la natura umana per settant’anni e siamo ancora in grado di farlo. E finché l’interdipendenza – economica, legata alla sicurezza, all’ambiente – continuerà a crescere, le persone ed i governi saranno spinti a lavorare insieme per risolvere i problemi e per non subire danni molto seri.
Oggi, infatti, le istituzioni globali sono necessarie per realizzare interessi umani fondamentali. Non è scritto da nessuna parte che che la storia debba finire con il trionfo del liberalismo, ma una cosa è certa: per essere decente, l’ordine mondiale deve essere liberale.
Ma mi sono soffermato su questo anche per un’altra ragione. Non è un caso che i cambiamenti nelle politiche economiche interne ed internazionali di questi anni abbiano messo sotto pressione tutti i principali partiti tradizionali e in particolare i partiti di centrosinistra. L’ordine costruito, dopo il 1945, in Europa occidentale ha rappresentato una rottura decisiva con il passato: gli stati non si sarebbero limitati ad assicurare che i mercati potessero crescere e prosperare e che agli interessi economici venisse dato il margine più ampio possibile. Dopo il 1945 lo stato è diventato il guardiano della società anziché quello dell’economia, e gli imperativi economici avrebbero dovuto a volte cedere il passo a quelli sociali. Anche da questo punto di vista, l’ordine del Dopoguerra ha rappresentato qualcosa di storicamente insolito, di anomalo. Il capitalismo era rimasto saldamente in sella, ma era un capitalismo molto diverso da quello esistente prima della guerra – un capitalismo temperato e limitato dal potere dello stato democratico, e spesso subordinato agli scopi della stabilità e della coesione sociale, invece che il contrario. Una cosa molto lontana dalla distruzione del capitalismo invocata dai marxisti ortodossi prima della guerra, ma diversa anche dalla ricetta favorita dei liberali: mollare le briglie ai mercati il più possibile.
Questo è stato un ordine social-democratico. Un altro dei pilastri dell’edificio riformista. Ed ha funzionato bene. Al punto che entro i primi anni Cinquanta la maggior parte dell’Europa aveva agevolmente superato gli indici economici del periodo tra le due guerre e i trent’anni successivi al ’45 furono il suo periodo di crescita più rapido di sempre. Le economie ristrutturate del Dopoguerra sembravano offrire qualcosa ad ognuno. E poiché il centrosinistra è stato identificato (più di ogni altro) con quest’ordine, che peraltro ha difeso con le unghie e con i denti, è stato anche quello che ha subito di più i contraccolpi generati dal suo crollo.
Le pressioni poste fin dagli anni ’70 dalla globalizzazione, dai crescenti deficit pubblici, dalle politiche neoliberali e dalle politiche improntate all’austerità adottate dall’Unione europea, ma anche dai cambiamenti sociali e dai processi di individualizzazione, hanno costretto il centrosinistra ad impegnare le proprie forze per definire nuove strategie in grado di rimettere in moto le economie e proteggere i cittadini dai cambiamenti indotti dal capitalismo in continua evoluzione. Ma non c’è modo di tornare indietro. E come si affanna a ripetere Enrico Morando, oggi “che il governo delle sofferenze e contraddizioni sociali create dal capitalismo non è più possibile alla dimensione nazionale”, oggi che “lo Stato nazionale non è più il teatro prevalente, non è più compiutamente sovrano, è venuto meno lo strumento fondamentale usato dalle socialdemocrazie per fornire una organizzazione al capitalismo”, in nome di quei valori e di quegli interessi. E il compito del presente, per costruire il futuro è proprio quello di costruire il nuovo sovrano europeo (anche con le forze di centro-destra che contrastano a loro volta i sostenitori della chiusura). Questo ci dà una prospettiva, in forza della quale guardare ai problemi costituiti dalle “sofferenze” della globalizzazione (ed anche alle sue enormi possibilità). Non solo per tornare a rappresentare (cioè, per risolvere i problemi elettorali), ma per risultare credibili soggetti del cambiamento necessario.
É in gioco l’Europa
Da poco più di un mese, l’Italia ha un governo che ritiene che il nostro interesse nazionale corrisponda alla messa in discussione dell’Eurozona nella sua attuale forma, ritenuta impropriamente espressione del dominio tedesco; un governo che, più in profondità, si batte per il ritorno della competizione geopolitica, della storia e della natura umana.
Che la posta in gioco sia la concreta distruzione di un profilo nazionale affermatosi in settant’anni, e generatore di crescita sociale e civile, dovrebbe essere ormai chiaro a tutti. Come ha detto il presidente Mattarella, «numerosi concittadini europei hanno smesso di pensare che l’Europa possa risolvere – nell’immediato o in prospettiva – i loro problemi. Vedono sempre meno nelle istituzioni di Bruxelles un interlocutore vantaggioso, rifugiandosi in un orizzonte puramente domestico, nutrito di una illusione: pensare che i fenomeni globali che più colpiscono possano essere affrontati al livello nazionale (…) pensare di farcela da soli è pura illusione o, peggio, inganno consapevole delle opinioni pubbliche».
Ma non c’è un piano B. La Repubblica italiana nata dopo la sconfitta del fascismo non è immaginabile al di fuori dell’alleanza atlantica e del mercato comune europeo. Il ritorno della giungla non farebbe che approfondire la frattura tra il Nord e il Sud del paese, fino a metterne in discussione la stessa unità nazionale. O qualcuno crede che la Lombardia possa davvero uscire dall’euro e dal mercato comune europeo? La tenuta del quadro europeo è condizione indispensabile per l’unità politico-territoriale dell’Italia. Senza l’Europa e l’alleanza Atlantica, che sono il fondamento del nostro sistema di valori e del nostro modo di vivere, l’Italia non sopravviverebbe come nazione. E la cosa è un enorme paradosso per i nazionalisti italiani che sono – a differenza di Marine Le Pen – dei nazionalisti senza nazione. Infatti, in Italia il partito nazionalista è la Lega, il che la dice lunghissima. E non sarebbe male se il Pd cominciasse a insidiare le retrovie dell’esercito leghista, ponendo qualche domanda a Salvini, cioè colui che dice di rappresentare gli interessi della parte più produttiva del paese e che mette a rischio gli interessi della parte più produttiva del paese.
La vittoria dei «redentores»
Che l’Italia che redime battesse l’Italia riformista era nell’aria. Il populismo è un fenomeno che ha il vento in poppa un po’ dovunque e non è certo da oggi che in Italia “los redentores” si contendono i fedeli. Dal tramonto della Prima Repubblica sul nostro paese si sono abbattute violente ondate populiste (perfino gli schiamazzi populisti della Lega sono sussurri rispetto a quando si parlava del Veneto come se fosse l’Ulster). Al punto che la lotta politica tra soggetti che si riconoscono legittimità ha ceduto il passo alla guerra di religione tra tra popoli omogenei (dal Popolo viola all’Esercito di Silvio) trasformando il bipolarismo degli ultimi vent’anni in una guerra di trincea tra nemici convinti di possedere il monopolio della virtù. A soffrirne è stato il tessuto istituzionale del paese, esposto ai feroci colpi degli uni e degli altri.
E’ finita che, come sostiene Steve Bannon, lo stratega che ha portato Donald Trump alla Casa Bianca, le elezioni del 4 marzo hanno trasformato l’Italia nel “centro del mondo in rivolta” e che di partiti espressione della “rivolta dei disagiati” in Italia ce ne sono addirittura due. E ci sono due vincitori perché ci sono due Italie.
Le tendenze di fondo emerse nelle elezioni
Vengo alle tendenze di fondo emerse nelle elezioni italiane. Sarà anche tutta colpa di Renzi, sarà che la sinistra deve «tornare tra la gente», ma a ben guardare, più di ogni altra cosa, le elezioni del 4 marzo scorso hanno registrato, come un sismografo, i grandi cambiamenti che si stanno propagando rapidamente in tutti i traballanti sistemi politici europei. Le tendenze più importanti sono tre anche nella variante italiana dei movimenti tellurici in corso.
La crescente mobilità elettorale
L’ascesa del Movimento cinque stelle, che alle elezioni ha sfondato specialmente tra i giovani e i disoccupati e nelle regioni più povere del Sud, riflette (come del resto l’ascesa di Macron in Francia, della AfD in Germania, dei democratici svedesi e di altre nuove formazioni) la prima importante tendenza: una mobilità elettorale crescente e storicamente senza precedenti. Stiamo assistendo ad un cambiamento storico. I partiti tradizionali sono sotto pressione come mai prima d’ora, mentre stanno emergendo nuovi concorrenti (tra il 2004 e il 2015, la percentuale raccolta dai partiti tradizionali è scesa di 14 punti, mentre quella conquistata dai nuovi partiti populisti è più che raddoppiata). Insomma, il sistema dei partiti europeo è più instabile che mai, con più persone che cambiano il loro voto da una elezione all’altra e non mostrano più la fedeltà partigiana che ha caratterizzato le generazioni precedenti. L’emorragia dei partiti tradizionali e la crescita del peso dei nuovi partiti riflette un processo di crescente volatilità, cominciato negli anni ’70, che si è accelerato durante gli anni ’90 ed ha registrato una impennata durante la recessione, raggiungendo livelli mai riscontrati in precedenza, neppure nel periodo tra le due guerre. La maggiore disponibilità da parte della gente a cambiare il loro voto da un ciclo elettorale all’altro, spiega perché un partito come il Movimento cinque stelle possa nascere e conquistare la maggioranza relativa alle elezioni politiche nello spazio di soli dieci anni. Insomma, non dobbiamo attendere per sapere se la politica europea è destinata a cambiare: è già cambiata.
La svolta a destra
La seconda è la consacrazione della Lega di Matteo Salvini che ha strappato a Silvio Berlusconi la leadership della destra. La Lega non è un nuovo partito. La Lega Nord è nata nel 1989 come un partito dichiaratamente indipendentista, federalista ed etnonazionalista (arrivò a proclamare l’indipendenza della Padania) ed è stata al governo con Berlusconi in diverse occasioni. Ma, di recente, il suo appeal si è diffuso più a Sud, via via che Salvini metteva la sordina ai temi «nordisti» delle origini e (emulando altri nazional-populisti come Pim Fortuyn e Geert Wilders in Olanda, Marine Le Pen in Francia, Heinz-Christian Strache in Austria e, appunto, Orban in Ungheria) puntava sulle questioni «culturali», enfatizzando la minaccia che viene dall’islam e che molti collegano alla crisi dei rifugiati.
Ma la svolta a destra dell’Italia non è un fatto isolato. E non dovrebbe sorprendere. La rilevanza crescente della destra radicale (caratterizzata da una visione del mondo nazionalista ed autoritaria, dall’opposizione all’immigrazione e dalla retorica populista) è uno degli sviluppi più importanti in tutti i sistemi politici europei degli ultimi 30 anni. Eppure, sono in molti a trascurare la portata e la velocità con la quale questo spostamento a destra si sta compiendo in tutta Europa. E la cosa non ha semplicemente a che fare con la crisi finanziaria post 2008 (che pure un contributo l’ha dato). Uno studio di Markus Wagner e Thomas Meyer dell’Università di Vienna, basato sull’analisi delle piattaforme elettorali di 68 partiti in 17 paesi europei, rivela che dal 1980 l’Europa nel suo insieme si é spostata nettamente a destra e che anche i partiti tradizionali hanno sostituito le politiche liberali con punti di vista più autoritari. L’ampiezza di questo spostamento si riflette nel fatto che nel 2015 la posizione intermedia dei partiti di centro-sinistra su questioni come l’immigrazione e l’integrazione, coincideva in pratica con la posizione dei nazional-populisti del 1980. In settembre si voterà in Svezia, dove i socialdemocratici hanno annunciato una nuova strategia per far presa sugli elettori: posare la carota e prendere il bastone in materia di immigrazione. Non è detto che funzioni, ma resta il fatto che lo spostamento a destra in Europa è conciso con il crollo generale della socialdemocrazia.
La crisi della socialdemocrazia europea
Il che ci porta alla terza tendenza cruciale. In Italia il Pd è crollato al di sotto del 20% dei voti per la prima volta dalla nascita. Sono in molti a ritenere che ciò ha a che fare con le vicende di casa nostra (tutta colpa di Renzi, appunto), ma in realtà è una testimonianza ulteriore del fatto che la socialdemocrazia in Europa (ma non solo) attraversa una crisi gravissima. Con la sconfitta del Pd, oggi ci sono meno di mezza dozzina di partiti di sinistra al governo nell’intera area dell’Unione europea, mentre nel 2000 ce n’erano 15. E le cose possono peggiorare. Sono passati trent’anni da quando Adam Przeworski ha illustrato (in “Capitalism and Social Democracy”) il dilemma centrale che i socialdemocratici devono fronteggiare: “Per avere successo alle elezioni devono rivolgersi a categorie sociali e culturali nuove, ma così facendo i loro sostenitori tradizionali si sentono traditi”. E dal 1980, si sa, quel dilemma è stato esacerbato dall’irrompere in tutta Europa (ed anche negli Stati Uniti), di un potente discrimine valoriale tra i liberal della classe media e i lavoratori (perlopiù conservatori o autoritari sul piano sociale), che sta rimpiazzando la vecchia divisione «destra-sinistra». Un discrimine che ha investito il centro-sinistra con nuove questioni (come l’immigrazione, l’integrazione europea e la crisi dei rifugiati) che mettono in subbuglio il proprio elettorato. Fatto sta che il voto dei lavoratori si è indirizzato per due terzi verso i nazional-populisti. L’Europa, per capirci, ha celebrato l’elezione di Emmanuel Macron, ma i lavoratori sono stati l’unico gruppo a votare in maggioranza Marine Le Pen. Questi elettori privilegiano la cultura sugli interessi di classe. E visto che l’immigrazione, l’islam e la crisi dei rifugiati stanno dominando l’agenda (secondo un’indagine di Eurobarometro, in tutto il continente, le due questioni più importanti per la gente restano infatti l’immigrazione e il terrorismo) è facile prevedere un balzo in avanti dei nazional-populisti nelle elezioni del Parlamento europeo del prossimo anno.
Resta il fatto che il declino del centro-sinistra degli ultimi anni, in tutti i paesi dell’Occidente, è una delle tendenze politiche più preoccupanti. Ha lasciato gli elettori in balia dei partiti estremisti, perlopiù di estrema destra, che rischiano di mettere in pericolo la natura liberale (e forse la stessa natura democratica) della politica occidentale. Anche perchè i partiti di centro-sinistra hanno avuto un ruolo decisivo nel creare e mantenere quell’ordine del Dopoguerra sul quale sono state edificate le democrazie.
In America, liberal e progressisti parlano con trepidazione di riconquistare la Camera e il Senato alle elezioni di metà mandato (e poi la presidenza), ma se si guarda alla rappresentanza Dem al Congresso e nelle assemblee legislative statali o al numero dei governatori, i democratici americani hanno toccato il punto più basso degli ultimi cento anni. E non sono gli unici. David Miliband, l’ex ministro degli esteri della Gran Bretagna, nel 2011, in un intervento alla London School of Economics sulla crisi della socialdemocrazia, aveva messo in fila i dati del disastro generalizzato del centro-sinistra europeo: nelle elezioni del 2010 il Labour Party aveva ottenuto il secondo peggior risultato elettorale dal 1918; in Svezia, durante lo stesso anno, i socialdemocratici avevano portato a casa il peggior risultato dal 1911; nel 2009, in Germania la SPD, una volta il partito di sinistra più forte dell’Europa continentale, aveva registrato il peggior risultato dalla fondazione della Repubblica federale e la più consistente emorragia elettorale di ogni altro partito nella storia del paese; nel 2007, in Francia per la sinistra di governo il risultato è stato il peggiore dal 1969. Dal 2011 le cose sono certo un pò cambiate, ma, come abbiamo visto, in gran parte in peggio. Nel 2017 in Francia, nella Repubblica Ceca e in Belgio, i socialdemocratici sono crollati a percentuali di una sola cifra, i laburisti olandesi hanno ottenuto il peggior risultato della loro storia, la SPD ha raggiunto la percentuale più modesta dal 1933 e in Austria il numero di seggi piu esiguo dal Dopoguerra.
Eppure, durante l’ultima parte del XX secolo i partiti socialdemocratici e laburisti erano al governo o guidavano l’opposizione praticamente in ogni democrazia occidentale. E se si considera il contesto, la situazione è ancora più sconcertante. Dieci anni dopo l’inizio della peggiore recessione economica dalla Grande Depressione, (una crisi finanziaria globale causata in buona parte dalla leggerezza del settore privato), i partiti che sono stati puniti sono principalmente quelli di sinistra mentre i partiti premiati sono principalmente quelli di destra. Perché? Per rispondere a questa domanda un gruppo di studiosi ha pubblicato un ottimo libro lo scorso autunno intitolato, «Why the Left Loses: The Decline of the Center-Left in Comparative Perspective». Ve lo segnalo. Aggiungo che le vicende dei partiti laburisti in Nuova Zelanda e in Australia sono particolarmente istruttive, perchè nonostante molte delle questioni siano del tutto simili a quelle dei loro omologhi europei, l’Unione europea non ha ovviamente ha che fare con le difficoltà affrontare dai nostri partiti fratelli degli Antipodi.
Why the Left Loses
Sheri Berman, un professore del Barnard College, raggruppa le risposte intorno a tre fattori. Il primo riguarda i leader. Le personalità in politica contano; e per vincere, il centro-sinistra ha bisogno di leader in grado di comunicare con un elettorato diversificato ed esigente e capaci di trasmettere il messaggio del partito in modo attraente, energico ed efficace. Ma com’è naturale, gli individui ambiziosi e di talento sono attratti da quei partiti che sembrano essere davvero in grado di affrontare le sfide dell’oggi. Non è un caso che il canadese Justin Trudeau, l’unico leader di centro-sinistra di un importante paese occidentale, sia una figura carismatica e abbia risvegliato gli elettori con il suo messaggio ispirato alle “sunny ways”, la filosofia di Sir Wilfrid Laurier. Come Laurier, il primo ministro canadese è convinto che la politica possa essere una potente e positiva forza di cambiamento; e i canadesi gli hanno dato ragione sanzionando che quel che occorre è un governo con una visione del futuro positiva, ottimistica e fiduciosa. Ma la leadership non è la spiegazione principale.
Il secondo fattore indicato da Berman ha ovviamente a che fare con i cambiamenti strutturali (e istituzionali) che oggi costituiscono la principale sfida per tutti i partiti, in particolare per quelli di centro-sinistra. Specie se si considera, insisto, la natura dei sistemi economici del periodo successivo alla Seconda guerra mondiale, con ampie forze lavoro sindacalizzate, ampi settori manifatturieri, economie regolate e reti di protezione sociale. Questa economia sociale di mercato, prevalente perfino negli Stati Uniti, come abbiamo visto, è stata creata principalmente dalla sinistra (la destra si è adeguata, ma solo a cose fatte). Perciò, sostiene Berman, quando questo intero sistema si è sentito minacciato dalla globalizzazione e dalla rivoluzione informatica, e poi è stato sconvolto dalla crisi finanziaria, è stata proprio la sinistra a ritrovarsi incerta sul da farsi (negli Stati Uniti, addirittura, la destra ha sostenuto in modo sprezzante che se i mercati fossero stati davvero liberi, la crisi non ci sarebbe mai stata). Insomma, proprio perché è stato il paladino di quell’ordine, il centro-sinistra ha subito più di tutti le conseguenze del suo deterioramento. Il centro-sinistra si è poi danneggiato da solo ulteriormente, facendo immediatamente retromarcia: la sinistra, si è deplorato, non avrebbe mai dovuto abbracciare il mercato. Eppure, i cosiddetti neoliberali (come Bill Clinton, Tony Blair e Gerhard Schroeder) hanno in realtà vinto una elezione dopo l’altra, e sono stati invece i loro successori a incominciare a perdere.
Oltre che dai cambiamenti strutturali dell’economia, i partiti di centro-sinistra sono stati sfidati anche dai cambiamenti sociali e culturali che hanno messo a rischio le identità tradizionali e le comunità (un processo ulteriormente esacerbato, specie in Europa, dall’immigrazione in aumento). Insieme, queste tendenze hanno contribuito ad erodere la coesione sociale e quel senso di un traguardo e di un ideale condiviso che, nel Dopoguerra, aveva sostenuto l’ordine socialdemocratico ed aiutato a stabilizzare le democrazie europee. Ora, ovviamente, non sta scritto da nessuna parte che i cambiamenti economici, sociali, culturali e istituzionali condannino il centro-sinistra all’oblio. Rappresentano piuttosto delle sfide e la reazione degli elettori e l’evoluzione del sistema politico dipenderanno dalle risposte che il centro-sinistra sarà in grado di dare a queste sfide. Il guaio è che manca dappertutto di riposte convincenti e coerenti; manca, in altre parole, e veniamo al terzo fattore indicato da Berman, di un messaggio convincente per affrontare la crisi e di una visione più generale in grado di promuovere la crescita mentre si proteggono i cittadini dagli aspetti più duri del mercato. Al centro-sinistra è anche mancato un messaggio persuasivo su come rapportarsi alla crescente diversità e una visione della coesione sociale appropriata alle realtà culturali e demografiche in mutamento. Al contrario, ha ignorato la sfida della diversità e, specialmente tra gli intellettuali di sinistra, ha abbracciato, con una certa faciloneria, il «multiculturalismo». Il che non gli ha consentito di porre un argine alla fuga degli elettori, in particolare degli operai. Insomma, sostiene Berman: «non si può battere un avversario con niente» e se il centro-sinistra non troverà messaggi allettanti, in grado di risolvere i problemi contemporanei, e una visione più attraente del futuro di quella offerta dai propri avversari, «continuerà a scivolare verso la pattumiera della storia».
Le specificità italiane
Ovviamente, nella catastrofe elettorale del Pd ci sono molte cose specificatamente italiane. Alcune recenti, altre più antiche. Mi limito ad accennare a quelle antiche ricorrendo ad un aneddoto. Quando il Labour ha eletto il fratello sbagliato (Ed Miliband anziché David) ero a Manchester con Lapo Pistelli. Il Congresso del Labour ospitava a margine, come di consueto, anche dei panel sui temi più disparati. In una di queste tavole rotonde, il vecchio leader laburista Neil Kinnock si è intrattenuto in colloquio con Massimo D’Alema, allora presidente della Feps, l’unico think tank progressista a livello europeo. Nel presentare l’ospite italiano al pubblico presente in sala, Kinnock definì D’Alema un «leader della transizione», cioè uno degli esponenti della sinistra comunista continentale che avevano guidato la trasformazione dei vecchi partiti comunisti e il loro approdo alla sponda occidentale. Non diversamente, per capirci, (fatte, naturalmente, le ovvie e debite proporzioni) da Wojciech Jaruzelski, che permise alla Polonia una transizione morbida e ordinata dal comunismo alle libere elezioni. Illuminando, tuttavia, con questa definizione, il rilievo e i limiti (insuperabili) della stagione dalemiana (e della stessa ditta) ed un problema (spesso taciuto) tutto italiano, sul quale tempo fa, sul Mulino, si è soffermato il professor Paolo Segatti.
La prospettiva comparata rivela infatti che il sistema politico italiano tende ad assomigliare a quello dei paesi dell’Europa orientale più che a quelli occidentali. Abbiamo sperato in molti che la transizione ci portasse, prima o poi, verso una democrazia governante di tipo occidentale nella quale i cittadini scelgono tra due o poco più partiti. L’analisi sulle modalità di competizione degli ultimi due decenni, accelerate e non contraddette già dalle elezioni del 2013 (le elezioni che hanno visto il numero più elevato di elettori nella storia repubblicana cambiare voto), ci indica invece che stiamo procedendo verso l’Europa orientale. Il che spiega molte cose. E il peso che fa pendere il piatto della bilancia verso Est è la fluidità straordinaria del sistema politico italiano, la fragilità organizzativa di quasi tutti i partiti e «la loro incapacità di svolgere un ruolo trasformativo della propria identità». «Non che i partiti dei Paesi occidentali godano di buona salute», osserva Segatti. «Ma esistono, in qualche modo, in Italia invece dopo quanto accaduto agli inizi degli anni Novanta i partiti non si sono più ripresi, e anche l’unico che sembrava restare in piedi, in realtà sopravviveva per inerzia». Appunto.
Ma ovviamente nella catastrofe elettorale del Pd ci sono anche molte cose del recente passato che saltano agli occhi se proviamo ad analizzare le vicende di casa nostra attraverso le tre dimensioni chiave che riguardano le istituzioni, gli individui e le idee. I tre temi – individui, istituzioni ed idee – sono interdipendenti e dialettici. Ovviamente, dovunque i sistemi elettorali danno (sempre) forma alla competizione; ovviamente, dovunque lo stile del leader può essere importante quanto l’ideologia; ovviamente, dovunque le politiche devono essere audaci e memorabili per ispirare davvero gli elettori.
Istituzioni
I fattori istituzionali modellano (e possono ostacolare) il centro-sinistra. Va da sé che uno dei fattori cruciali è rappresentato dal sistema elettorale. Qui c’è poco da aggiungere a quello che Stefano Ceccanti va ripetendo da tempo: prima del 4 marzo scorso il Pd ha preso una legnata da cui non si è ancora ripreso il 4 dicembre 2016, quando all’Italia è stato impedito di avere un sistema capace di alimentare la vocazione maggioritaria. E se vogliamo un partito alla Macron dobbiamo importare in Italia il modello semi-presidenziale alla Macron. L’introduzione del sistema semi-presidenziale francese dovrebbe essere il primo punto programmatico dell’oggi, come in passato
aveva fatto l’Ulivo. Continuo a pensare che la possibilità della scelta e la responsabilità della scelta, siano l’unica risposta possibile a una crisi di fiducia ormai incontenibile. Aggiungo che dietro la scelta compiuta dalla maggioranza degli italiani il 4 marzo scorso si nascondono certo molti ingredienti, ma c’è anche il no, grande come una casa, a quell’atteggiamento paternalistico dei governanti che li considera come dei bambini, incapaci di decidere in modo autonomo e responsabile. É tempo di farsene una ragione. Sono cresciuti.
Per il partito, tuttavia, i fattori istituzionali interni includono anche il coinvolgimento degli elettori (primarie, ecc.), l’influenza dei sindacati (la Cgil per due decenni ha costruito le parole d’ordine oggi al potere con Di Maio: il 4 marzo circa il 33% degli iscritti alla Cgil ha votato per il M5s e l’11% circa per la Lega) e anche dimensioni come le divisioni correntizie all’interno del partito.
Leadership
La leadership è stata a lungo una dimensione negletta nella comprensione delle fortune del centro-sinistra. Ma è ormai diventata un elemento cruciale (specie dopo Renzi). Anche se resta difficile misurarne l’impatto. Le liberal-democrazie sono diventate dovunque più leader-centriche e personalizzate. E dovunque i leader di partito stanno diventando più autonomi dal partito, il che assegna al leader un potere enorme. Ma dappertutto il leader il più delle volte è isolato, separato dall’ambiente circostante. E molto fragile.
Ora che Renzi non piace più (tutta colpa dello storytelling, si dice) ed è accusato di ogni sorta di nefandezza, bisogna riconoscere che ha saputo rianimare una legislatura che sembrava finita in un vicolo cieco, ha costretto la sinistra a fare i conti con i suoi limiti e ha avuto il merito indiscutibile di tagliare il cordone ombelicale con il cattolicesimo democratico e con le ambiguità del postcomunismo. Di più: l’ex sindaco di Firenze ha ripreso quasi tutte le idee-chiave della sinistra liberale e con queste idee ha sfidato la maggioranza del Pd. Il vero senso politico della rottamazione è stato questo, molto oltre le questioni anagrafiche. Ma oggi, come scrive Carmelo Palma, Renzi sta al renzismo come Hillary al Clintonismo. E se si concedesse davvero una pausa sarebbe più facile difendere il meglio del renzismo. Paradossalmente, la presenza di Renzi sulla scena, indipendentemente dai suoi meriti e dai suoi demeriti, giustifica, anziché arginare, i teorici della restaurazione. Far coincidere il renzismo con Renzi è un errore fatale, come quello di far coincidere il clintonismo (forse la più grande modernizzazione del pensiero progressista globale) con la coppia Hillary-Bill.
Aggiungo che Matteo Renzi era riuscito a sottrarre fedeli ed ossigeno al populismo per traghettarli verso quella “big tent” che poteva stabilizzare il sistema. Ma per vincere doveva tenersi stretto il patto del Nazareno. La rottura con Forza Italia ha reso impossibile l’approvazione della riforma costituzionale e, sciupata l’ultima opportunità di riformare il sistema esistente per renderlo di nuovo credibile, tanto il Pd che Fi sono andati a sbattere contro il muro. Contro Renzi, si sa, si è scatenata una guerra senza quartiere (e ancora una volta ha vinto la “levelling coalition”), ma di errori Renzi ne ha fatti parecchi. Secondo Silvio Berlusconi “a Renzi va riconosciuto il merito di aver chiuso con la tradizione comunista del suo partito, ma ha trasformato il Pd in una scatola vuota che si riempie solo con aspirazioni di potere”. E c’è del vero.
Ora la polarizzazione tra populismo illiberale e liberalismo obbligherà il Pd a fare i conti con la realtà (e probabilmente a ripensarsi) e a prendere atto che la stagione renziana non è stata una parentesi da archiviare in fretta.
E dobbiamo batterci per non tornare indietro e perché ci siano dei riformisti alla guida del Pd. Ma si tratta, di riempire di contenuti quella scatola, di provare, cioè, a ricostruire un partito seriamente riformista (meno di metà del 40 per cento degli italiani che hanno votato Sì al referendum hanno votato Pd il 4 marzo), in grado di combattere un sistema di valori antitetico alla modernità; quel male che, secondo il premio Nobel Edmund Phelps, affligge le società occidentali: non l’assenza di opportunità di fare profitto, o qualche omissione del settore pubblico (come ponti o strade che non sono state costruite), “ma il declino dei valori moderni che avevano diffuso il desiderio di innovare”. So che in molti nel Pd pensano di allearsi con i Cinque Stelle. E ritengono che ciò significhi ritornare finalmente a sinistra, dopo i cedimenti al «pensiero unico liberista». So bene che anche a sinistra ci si limita ad una generica lamentela contro le disuguaglianze che crescono, mentre si dovrebbe parlare di sviluppo. So bene che, come scrive Nicolò Addario, bisogna prendere sul serio la tesi di Maritain sul comunismo come “ultima eresia cristiana”. Ma attestarsi sul valore dell’uguaglianza (socioeconomica) in chiave essenzialmente morale (un valore inteso proprio in senso anticapitalistico), scalderà forse i cuori agli orfani di Berlinguer, ma può solo fare danni. L’economia richiede che prima si produca e poi si redistribuisca. Se redistribuisco senza preoccuparmi dello sviluppo, da dove provengano le risorse necessarie, quali siano le conseguenze della redistribuzione sulla produttività e sui servizi ai cittadini, faccio solo del moralismo e prima o poi finirò sicuramente con l’aggravare i problemi e persino con l’aggravare le disuguaglianze. E questo è un punto cruciale per la vecchia cultura di sinistra che deve mettere finalmente da parte l’anticapitalismo residuo: una questione che viene da lontano e non è stata mai veramente superata. E che con la socialdemocrazia non ha niente a che spartire. Di Maio e “los redentores” con la sinistra moderna non hanno mai avuto niente a che fare”.
Idee
Vengo alle idee e alla capacità del Pd di costruire una narrazione coerente e un messaggio ideologico di fronte ai cambiamenti epocali di questi anni. Non sono i programmi che mancano al Pd ma, come sostiene Cominelli, è «la metafisica di fondo». “Ciascuno comunica ciò che ha. E il Pd ha comunicato alla perfezione la propria visione confusa del mondo e l’incertezza delle categorie per interpretarlo”. Ma le idee contano. Il potere delle idee è spesso difficile da catturare, ma come ha osservato Keynes, «il mondo è guidato da poco altro» (anche se molti uomini pratici, spesso credono di esserne esenti).
Il referendum costituzionale, il jobs act, ecc hanno dimostrato che nel centrosinistra non c’è una visione condivisa del futuro, di cosa debba essere una buona società. Non c’è dubbio che la visione di Renzi sia quella di una sinistra liberale che, a differenza della vecchia sinistra, guarda al mercato come asse centrale della società e come “metodo” della redistribuzione del reddito: riduzione dell’intervento dello Stato e della quota di reddito che esso intermedia, aumento della concorrenza, diminuzione delle imposte e restituzione di quote di reddito a famiglie e imprese perché aumenti il loro grado di libertà “dallo” Stato (libertà individuale). È su questa visione di fondo che si è giocata e si gioca la differenza con la vecchia sinistra. Ed è ovvio che si gioca tutta qui l’identità del Partito democratico.
In più, c’è una sorta di «gap valoriale», un divario nei valori sociali, tra gli elettori che storicamente votavano a sinistra e gli attivisti e i dirigenti del Pd. Il Pd ed il movimento dei lavoratori hanno cessato di essere una ampia chiesa in termini di valori sociali e può essere descritto meglio come un insieme di fazioni politiche litigiose. Per capirci, il «socialismo» di Cuperlo è diverso da quello di Emiliano e, ovviamente, da quello di Renzi.
Le turbolenze della gestione Renzi, sono state e sono certamente legate ad ambizioni e rivalità personali, ma sarebbe un errore ridurle a questo. Alla base ci sono diversi orientamenti di cultura politica. La politica del Pd è apparsa sempre caratterizzata da difficoltà e incertezze, che qualcuno attribuisce alla “fusione fredda” tra tradizione comunista e tradizione popolare. Ma è una lettura sbagliata. “Il punto è che – come ha scritto Claudia Mancina – entrambe quelle tradizioni erano deboli, vecchie, gravate da contraddizioni, e in conclusione poco riformiste. Entrambe accettarono la prospettiva della nuova forza politica più per necessità che per una vera scelta. E si industriarono a portare nella nuova botte il vino vecchio. Due esempi a caso: dopo dieci anni il Pd non è ancora riuscito a elaborare una linea coerente sulla giustizia o sulla scuola, due temi sensibili nella storia del centro democratico così come in quella della sinistra riformista. Per non parlare del lavoro: la riforma di Renzi è ancora sentita (nonostante buoni risultati concreti) da gran parte del corpo politico del Pd come un errore, anzi un tradimento, da revocare appena possibile. La mancanza di una elaborazione culturale nuova per un nuovo partito ha condotto alle oscillazioni e contraddizioni di cui siamo testimoni ogni giorno.
Il Pd non ha ancora una cultura politica comune che possa riconoscere come propria. Oggi, dopo la grave sconfitta del 4 marzo, è forse alla sua ultima occasione. Non uscirà dalla sua crisi se non affronta un lavoro serio sulla cultura politica, per superare le ambiguità e i residui di prospettive ormai implausibili. Non servirà guardare indietro alle pur gloriose socialdemocrazie del secolo scorso: i concetti di base della politica socialdemocratica sono oggi da ridefinire dai fondamenti, nel quadro di un mondo totalmente cambiato».
In Italia (come dappertutto e non da oggi) ci sono due sinistre, una riformista, l’altra redentiva.
Faccio un esempio. Non è vero che la sinistra (tutta la sinistra) sull’immigrazione sia cieca; che non voglia vedere il problema (e quindi non lo veda); che le posizioni di Minniti di contrasto al disordine migratorio e la tesi, contenuta nel libro di Matteo Renzi, “Avanti”, di mettere un numero chiuso agli ingressi dei migranti e di “aiutarli a casa loro” siano una novità assoluta; che la sinistra (tutta la sinistra) abbia un approccio ideologico sul tema dell’immigrazione. Anche su questo tema, nella cultura della sinistra ci sono (nettamente distinte, anzi contrapposte) due anime. E non è un caso che Gino Strada accusi Minniti di avere una biografia da sbirro, solo per aver riportato un po’ di ordine nel caos delle Ong e degli sbarchi.
Basterebbe ricordare lo scontro che andò in scena all’Assemblea Nazionale del Partito Democratico che si svolse l’8 e 9 ottobre 2010 in provincia di Varese, a Malpensa Fiere a Busto Arsizio. All’assemblea nazionale di Varese, sulla base dei lavori del demografo Massimo Livi Bacci, avevo messo a punto un documento sull’immigrazione (presentato da Movimento Democratico, l’area del partito che allora faceva capo a Veltroni, e sottoscritto da tutti i leader della corrente, da Beppe Fioroni a Paolo Gentiloni) che, per usare le parole di Maria Teresa Meli che sul Corriere della Sera ne aveva riassunto i contenuti, “non ricalca le parole d’ordine care alla sinistra, ma affronta il problema in maniera del tutto inedita per una forza politica come il Pd“. L’ordine del giorno ero chiaro fin dalla premessa: «Vogliamo assicurare attraverso l’introduzione di un sistema d’ammissione a punti che avremo gli immigrati di cui la nostra economia ha bisogno, ma non di più. Con il ritorno della crescita vogliamo vedere crescenti livelli di occupazione e salari crescenti, ma non crescente immigrazione». «Australia, Nuova Zelanda, Canada, Gran Bretagna e Danimarca – si leggeva nel testo presentato a Varese – hanno adottato strategie di questo tipo. Età, sesso, stato civile, istruzione, specializzazione, conoscenza della lingua, della cultura, dell’ordinamento del paese, si combinano in un punteggio, o valutazione, dell’ammissibilità dei candidati all’immigrazione. L’esito normale del processo di inclusione, in queste società è l’acquisizione della cittadinanza, e questo avviene per la maggioranza degli immigrati». Dunque, «si tratta di una politica migratoria selettiva: l’ammissibilità legata ad una valutazione delle caratteristiche degli immigrati», perché «venire, a ancor più restare in Italia, è un’ opportunità e non un diritto».
Ma non finisce qui. Il documento prevedeva anche un’altra proposta «forte» che rappresentava un’ulteriore novità per la tradizionale politica dell’immigrazione adottata dal Partito democratico. «Riconosciamo inoltre – era scritto nel testo – che l’immigrazione può mettere pressione sulla disponibilità di abitazioni e di servizi pubblici delle nostre comunità, perciò dobbiamo costituire un Fondo Impatto Immigrazione pagato dalle contribuzioni degli immigrati per aiutare le aree locali». Anche in questo caso, una piccola rivoluzione per il Pd, mutuata dalla Gran Bretagna.
Ovviamente, l’approccio non era quello leghista e nell’ultima pagina vi era un paragrafo tutto dedicato ai diritti degli immigrati: «Poiché buona parte dell’immigrazione è di lungo periodo o permanente deve essere in grado di acquisire pieni diritti, politici e di cittadinanza. E le riforme devono riguardare lo snellimento delle procedure per ottenere la carta di soggiorno per “lungo residenti”; la concessione del voto amministrativo; l’accesso alla cittadinanza ai nati da residenti stranieri legalmente soggiornanti e ai minori cresciuti e formati in Italia».
“Oggi – concludeva Maria Teresa Meli – dopo una nottata di trattative in un’apposita commissione di lavoro, si saprà se il gruppo dirigente del Pd è disposto ad accettare la sfida sull’immigrazione lanciatagli dalla minoranza di Veltroni (tanto più che il documento è piaciuto anche a una parte della maggioranza interna e a una fetta degli amministratori locali del Nord), o se preferirà attestarsi sul documento elaborato da Livia Turco, in linea con i temi e gli slogan tradizionali della sinistra”. Sappiamo come è andata a finire.
La nuova sovranità europea: interesse nazionale italiano
Come ha detto Emmanuel Macron, «non si può essere timidamente europeisti, altrimenti abbiamo già perso». In uno degli incontri preparatori Giorgio Tonini ci ha ricordato che la nuova sovranità europea è nel nostro interesse. «Un patto europeo per aumentare l’avanzo primario e accelerare il rientro del debito, in cambio di forti politiche espansive a livello di Eurozona: investimenti in infrastrutture, asseto idrogeologico, riqualificazione del patrimonio edilizio, reti telematiche, istruzione superiore, ricerca e innovazione. E dobbiamo costruire un patto nazionale per fare della riforma dell’Eurozona un punto primario di interesse nazionale da far valere in Europa, con le necessarie alleanze». Per chi non si riconosce nella retorica sfascista dei movimenti populisti, è la prima cosa da fare. I paesi dell’Europa (e non solo) crescono quando intensificano la produttività del lavoro, sfruttano le leve dell’export, scommettono sulla globalizzazione. I movimenti anti sistema scommettono su un modello contrario e dicono esplicitamente che la produttività non è un problema, che l’apertura dei mercati è il male della nostra epoca, che il protezionismo è il futuro. Per smontarli, bisogna partire da qui, contrastando quello che Claudio Cerasa, il direttore del Foglio chiama il «cialtronismo anti sviluppista» dell’agenda economica dei nuovi populisti. Per smontarli, bisogna essere duri con i populisti e duri con le cause del populismo.
Ora Nicola Zingaretti prova a riprendersi il Pd archiviando la stagione renziana nella quale la sinistra avrebbe «accettato il terreno del pensiero unico: mercato, meritocrazia, competizione, narcisismo, consumismo». Ma c’è da dubitare che il «ritorno a sinistra» e la stanca prospettiva di un centrosinistra vecchia maniera, quello dell’Ulivo e dell’Unione, possano aggiornarne il messaggio e superare i motivi di crisi evidenziati da Berman.
Donald Sassoon, scrivendo della sinistra, ha catturato lo scoramento che produrrebbe una simile prospettiva: «nel bel mezzo di una nuova crisi profonda, si presenta senza idee, come un residuo del passato di fronte ad un incerto futuro».
La vecchia divisione destra-sinistra non è ovviamente sparita (anche se ha assunto un ruolo secondario) e c’è una interpretazione di sinistra anche del nuovo conflitto apertura-chiusura. Ma non c’è modo di ripristinare il vecchio sistema. Siamo passati dal modo di produzione industriale a quello digitale, definitivamente. Quando cambia il modo di produzione cambia tutto. Cambiano i rapporti di produzione e di scambio e le forme del consumo, cioè il modo in cui facciamo le cose, il modo in cui le scambiamo e persino il modo in cui le consumiamo; cambia il rapporto tra capitale e lavoro, cioè tra chi decide cosa fare e come farlo e chi materialmente produce la trasformazione; la formazione dei valori sia economici che sociali, le forme dell’organizzazione sociale e, ovviamente, le modalità della politica.
Per questo dobbiamo ricostruire l’edificio partendo dai fondamentali: ordine liberale, interdipendenza, l’Europa, il nostro sistema di valori. Per questo dobbiamo cercare una quarta via e non tornare alla seconda. Per questo, non abbiamo bisogno di facce nuove, abbiamo bisogno di teste nuove. Non abbiamo bisogno di nuovi interpreti delle vecchie idee abbiamo bisogno di idee nuove. Quando Galileo ha guardato con il cannocchiale Venere, mi ricorda Siagri, non è cambiato il modo di vedere Venere, ma è cambiato il mondo stesso.
Si tratta perciò di dar forma anzitutto ad un sistema dei partiti, ad un sistema di alleanze, capace di rappresentare la nuova divisione che c’è oggi in Italia e in Europa tra coloro che rifiutano l’interdipendenza e coloro che la ritengono necessaria; e prima si fa, meglio è. Questo è il vero punto di differenza è di scontro. Il vero bipolarismo politico globale è quello tra integrazione e disintegrazione. E lo schieramento progressista non può giocare in difesa proprio perché l’integrazione è una costruzione politica, il pilastro principale che regge l’edifico, e una sfida competitiva. Quasi tutti nel Pd (da Zingaretti a Calenda) raccontano l’integrazione come problema e non come frontiera, come un terremoto da contenere negli effetti. Ma così continuano a giocare sul frame concettuale è retorico degli avversari.
Per il Pd potrebbe essere invece l’occasione per rilanciare la battaglia riformista e connettere i tanti frammenti sparsi, apparentemente slegati e, come in un vecchio gioco per bambini, svelare la figura nascosta unendo i puntini nell’ordine numerico corretto.
Quando i profughi di Ersilia, racconta Calvino nelle Città invisibili, guardando l’intrico di fili che hanno teso tra gli spigoli delle case per stabilire i rapporti che reggono la vita della città, vedono che proprio quell’intrico, quella ragnatela di rapporti intricati, è ancora la città di Ersilia e loro sono niente. È quell’intrico, quella ragnatela di rapporti, quel che conta davvero.
Già senatore del Partito democratico, membro della Commissione Esteri e della Commissione Politiche Ue, fa parte della presidenza di Libertàeguale. Parlamentare dal 2001 al 2018, è stato segretario regionale dei Ds del Friuli Venezia Giulia.
Caro Maran ho letto volentieri il tuo articolo bello interessante profondo, improntato su analisi utili ,ma nelle quali manca il progetto organizzativo. I segretari dei circoli PD ( ho esperienza di Roma e Genova sono fragili politicamente velleitari). Sulla scuola non dici nulla né nulla dici su prospettive solidaristiche non incazzose come quelle che propone Salvini.