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Parlamentari: il rischio che si cambi poco e male

Stefano Ceccanti giovedì 2 Maggio 2019
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di Stefano Ceccanti

 

Discorso alla Camera dei Deputati sulla riduzione del numero dei parlamentari

 

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Ceccanti. Ne ha facoltà.
STEFANO CECCANTI (PD). Grazie, Presidente. Assistiamo oggi a un paradosso: quella in esame è la seconda riforma costituzionale che è affrontata nella legislatura in corso in queste Aule e siamo riusciti ad avere un clima di dialogo piuttosto positivo, al di là dei voti finali, su quella su cui i punti di partenza erano più lontani, perché le impostazioni in materia di referendum propositivo all’inizio erano radicalmente alternative.
Siamo stati molte ore in Commissione e molte ore in Aula e ci siamo ascoltati, il testo è anche cambiato: poi noi manteniamo riserve di fondo, però non si può dire che sul tema non ci sia stato un dialogo. La cosa paradossale è che, invece, sul provvedimento riguardante la questione del numero dei parlamentari, su cui di per sé ci sarebbe potenzialmente più accordo, ci viene impedito praticamente il dialogo, perché non solo non si recepisce alcun emendamento ma addirittura si vogliono rendere inammissibili alcuni emendamenti palesemente connessi in nome di una visione microchirurgica degli interventi costituzionali che gli stessi chirurghi farebbero fatica a riconoscere e in nome di una teoria, espressa dal Presidente Fico, secondo cui è ammissibile ciò che la maggioranza dice che sia ammissibile e il ruolo del Presidente è sostanzialmente un ruolo di ratifica passiva di qualsiasi decisione venga effettuata dalle maggioranze parlamentari.
È una cosa inaccettabile specialmente su un terreno come la revisione costituzionale, che è il più importante provvedimento legislativo. Praticamente, in questo caso siamo in presenza della tecnica adottata per i decreti-legge e applicata al referendum costituzionale.
Sui decreti-legge, nella legislatura in corso, avete aumentato la tecnica – per carità, era invalsa anche in altre legislature – del monocameralismo alternante: ciò che si vota con emendamenti in una Camera deve essere passivamente accettato dall’altra Camera; anzi, qui l’imitazione è in peggio, perché nei decreti i margini di ammissibilità vengono tenuti abbastanza ampi, comunque; nella seconda Camera si bocciano tutti gli emendamenti, ma non si adottano criteri così restrittivi come quelli a cui ci siamo dovuti inchinare – o meglio, che abbiamo dovuto accettare – ma che continueremo a riproporre.
Se questa teoria – per cui la maggioranza può tutto e le presidenze d’Assemblea non possono niente – dovesse proseguire, ci riserviamo anche, come ha ricordato il collega Migliore, un eventuale ricorso alla Corte, di cui tracce di legittimità si rinvengono nella recente ordinanza del mese di gennaio. Per di più, questo è abbastanza paradossale perché, nel frattempo, sembra che il Senato non si consideri ugualmente vincolato al lavoro che è stato fatto qui sul referendum e quindi si riservi di modificare il testo sul referendum; quindi, noi siamo in presenza di una Camera e di una Presidenza della Camera che ha un’incredibile eccesso di zelo nei confronti della volontà della maggioranza su questo aspetto.
Perché noi riteniamo sbagliato un atteggiamento microchirurgico su questo tema? Perché affrontare i numeri come se i numeri fossero una variabile puramente indipendente non corrisponde palesemente ai problemi che sono aperti sulla struttura e il funzionamento delle Camere. Il bicameralismo ripetitivo è disfunzionale da qualsiasi punto di vista lo si voglia guardare, e non si capisce perché il problema dei numeri non dovrebbe essere assunto in relazione specifica a questo problema. Anche negli altri Paesi di forme bicamerali, normalmente, una sola Camera ha la fiducia e quella ha un numero di parlamentari molto più ampio della seconda Camera, che non dà la fiducia e rappresenta altre cose; quindi, quella sì, può avere un numero di componenti molto ristretti, anche molto di più inferiore alla metà.
Allora, l’allineamento degli elettorati a diciott’anni, oltre che anche di quello passivo a venticinque, corrisponde, se si vuole mantenere un’opzione bicamerale, a una scelta logica in termini di forma di Governo, perché la presenza di sette classi di età, da diciotto a venticinque, che votano solo alla Camera, oltre che inspiegabile dal punto di vista dei diritti dei cittadini – e non si vede perché non debba essere questa oggi, subito, la sede per sanarla – è anche illogica dal punto di vista della formazione delle maggioranze parlamentari, perché espone le due Camere al rischio di maggioranze diverse tra di loro, rischio a cui abbiamo assistito molte volte dal 1994 in poi, anche se non in questo caso specifico.
Detto questo, non si vede perché non si dovrebbero considerare con libertà, di fronte a noi, trattando di numeri parlamentari, tutte le opzioni possibili: chi ci vieta di andare verso un’opzione monocamerale e di risolvere, a quel punto, il problema dei rapporti centro-periferia, costituzionalizzando la Conferenza Stato regioni, rendendolo un organismo più trasparente, più rendicontato? Oppure, chi ci impedisce di andare a forme di monocameralismo sostanziale? Noi per l’Aula abbiamo predisposto anche un emendamentoche si ispira all’esperienza norvegese, nella quale, tradizionalmente, il Parlamento era eletto come organo unitario e, dopo l’elezione, veniva suddiviso in due Camere, garantendo così una maggioranza omogenea nei due ambiti. Oppure, appunto, si può scegliere una conformazione diversa: vediamo quanto sia difficile varare, a Costituzione invariata, a Senato invariato, l’autonomia differenziata, perché l’autonomia differenziata è in preda a un negoziato esclusivamente su variabili politiche fuori da sedi istituzionali; se ne parla così tanto, ma qui non abbiamo avuto, al momento, neanche una riga.
Questo dimostra, forse, che la struttura del Parlamento si presta male, in questa fase, a gestire l’autonomia differenziata; altro sarebbe se, come presente nei nostri emendamenti,stabilissimo la presenza, almeno in alcune occasioni, come quella delle leggi di autonomia differenziata, la presenza dei presidenti delle regioni che attivano il procedimento.
Quindi, la nostra preoccupazione non è che si cambi troppo, ma che si cambi poco e male. Questa è una riforma che cambia poco e male, e nella quale, per di più, si pretende di non discutere una parte significativa degli emendamenti.
Vorrei chiudere con un ringraziamento. Molti di noi ci ascoltano grazie a Radio Radicale, che fa un servizio pubblico (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico), perché sia in ambito informativo sia in altri settori il servizio è pubblico non solo per chi lo gestisce, ma per le modalità con le quali è gestito. Nel periodo in cui si vuole ridurre il numero dei parlamentari senza affrontare i nodi di sistema, si voglia anche colpire una voce che è contemporaneamente libera ed utile come servizio pubblico, rivela una visione distorta e sbagliata delle istituzioni, contro la quale noi ci opporremo, anche in questo caso. (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).
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