di Enrico Morando
Le urla alla “congiura” contro l’Italia si erano sprecate: la disastrosa frase di Lagarde sarebbe stata la prova, nell’ordine, 1-della volontà dei Paesi nordici di approfittare della crisi coronavirus per ridurre in cattività gli odiati Paesi Mediterranei; 2-dell’assoluta inutilità dell’Unione monetaria (e, forse, dell’Unione come tale); e, infine 3-di quanto avessero avuto ragione coloro che- dal Six Pack al MES- avevano avversato e avversano ogni nuovo passo verso l’integrazione.
La BCE incrementa il programma di acquisti: +750 miliardi
Le decisioni assunte dalla BCE tra mercoledì e giovedì della settimana scorsa dimostrano invece che la frase di Lagarde (non è compito della BCE ridurre lo spread), era una sesquipedale cazzata (quando ci vuole, ci vuole…) della neoPresidente, che non era soltanto in aperta contraddizione con la linea tenuta dalla BCE dalla crisi del debito sovrano ad oggi, ma esprimeva addirittura la posizione opposta a quella assunta dalla maggioranza dell’organismo direttivo della stessa BCE nella riunione che aveva preceduto la conferenza stampa di Lagarde.
Lo prova la scelta del Consiglio direttivo della BCE di incrementare il programma di acquisti 2020 di ben 750 miliardi; ma soprattutto quella- assolutamente senza precedenti- di cancellare il vincolo a che gli acquisti di titoli di ciascun Paese siano tenuti in limiti direttamente proporzionali alla dimensione relativa dell’economia del Paese stesso (per l’Italia, il 13%). In sostanza, nel Consiglio BCE si è formato un ampio consenso sulla necessità di uscire da un vincolo che avrebbe impedito, nel caso del concentrarsi delle difficoltà sui titoli di debito di un Paese membro- nel contesto di una più generale crisi dell’Area euro-, di incrementare il volume degli acquisti BCE di titoli di quel Paese, “per quanto necessario e per tutto il tempo necessario”.
Se la minaccia viene da un agente esterno
Il passo è davvero enorme, ed ha potuto essere compiuto -a mio parere- in virtù del fatto che questa volta il fattore originario della crisi colpisce, almeno potenzialmente, tutti i Paesi membri in modo simmetrico, così convincendo anche i più riottosi di una verità di cui in passato non avevano voluto prendere atto: in un contesto generale di recessione, l’intero edificio dell’euro può rovinare su se stesso se si abbandona al suo destino anche uno solo dei Paesi membri. Il quale Paese-sia chiaro-non ha alcun diritto di chiedere che gli organismi comunitari paghino al posto suo i debiti eccessivi contratti in passato e male usati (il rischio paventato dai Paesi nordici, non senza qualche buona ragione: si veda la legge di bilancio gialloverde 2019-2021). Ma ha il diritto (ed anche il dovere, se l’idea del “bene comune” non è del tutto smarrita) di chiedere che l’intera potenza degli organismi comunitari venga impiegata quando l’incendio che lo minaccia non ha nulla a che vedere coi suoi debiti passati, ma nasce da un agente esterno ed appare in grado di aggredire l’intero edificio comunitario.
Il comunicato del Consiglio direttivo della BCE afferma la nuova visione con grande chiarezza: “Nella misura in cui alcuni limiti autoimposti ostacolassero l’azione che la BCE è tenuta ad intraprendere per adempiere al suo mandato, il Consiglio direttivo prenderà in considerazione la possibilità di rivederli nella misura necessaria per rendere la sua azione proporzionata ai rischi che dobbiamo affrontare”. Non è un caso che sia un organismo “integralmente” federale come la BCE- l’unico, tra quelli dell’Unione, ad essere davvero tale- a prendere su di sé l’incarico di indicare la strada da seguire ai cittadini europei nel loro complesso.
Evitato il default del debito pubblico italiano
Sottolinearlo, non è vuota retorica europeista: sono passati pochi giorni da quando, al primo manifestarsi degli effetti della pandemia e di fronte ai gravissimi limiti della “nuova” leadership comunitaria, molti cittadini e la quasi totalità dei commentatori hanno intonato il “de profundis” sulla costruzione europea in quanto tale: a che serve l’Unione, se non ha un ruolo in circostanze così drammatiche? Lo Stato nazionale è la nostra salvezza.
Che nella gestione di una crisi come quella del coronavirus lo Stato nazionale -anche quello delle “piccole” nazioni europee- abbia molto da dire e da fare, è ovviamente vero. Ma sono bastate poche ore per distinguere questo “vero” dalla facile propaganda anti-europea: senza la svolta della BCE, ora staremmo già discutendo, in Italia, di come evitare il default del debito pubblico. Lo ha spiegato bene Olivier Blanchard: quando è scoppiata la crisi, il debito pubblico italiano era pari al 135% del Pil e lo Stato pagava, sulle nuove emissioni, un tasso di interesse inferiore all’1%. Per la stabilizzazione del debito a quei livelli, bastava dunque un avanzo primario annuo attorno all’1%. Ampiamente sostenibile. Ma se la crisi coronavirus riduce di molto le entrate (tutto chiuso, giustamente) e aumenta enormemente le uscite (tutto il necessario a salvare vite umane, giustamente), mentre lo spread aumenta (in un solo giorno, quando sembrava che “BCE non fosse al mondo per ridurlo”, oltre 100 punti base in più), e con lui i tassi di interesse salgono, l’avanzo primario necessario per stabilizzare il debito (nel frattempo salito vicino al 145% del Pil) sarebbe più vicino al 5% annuo che all’1. Assolutamente insostenibile, sia economicamente (una simile stretta accentua la caduta del PIL), sia politicamente (l’offensiva populista, già formidabile, avrebbe facilmente ragione delle residue resistenze liberaldemocratiche).
Serve una politica fiscale oltre la crisi
Scampato pericolo? Per come si erano messe le cose, sì. Ma il compito più difficile è di fronte a noi, ed abbiamo pochissimo tempo per svolgerlo: senza una politica fiscale dell’Area euro, lo strumento della politica monetaria -per quanto ben utilizzato- non ha la potenza di fuoco necessaria.
Qualcosa di rilevante si è mosso, in questi giorni, ma ancora non ci siamo. L’attivazione della “general escape clause” da parte della Commissione è certamente una notizia buona. Ma è anche, per dirla chiaramente, una notizia ovvia. Recita infatti il Six Pack (sì, quello che allora, nel 2011, non avremmo dovuto firmare): “In periodi di severa recessione per la Zona euro o tutta l’Unione europea, gli Stati possono temporaneamente allontanarsi dall’aggiustamento verso l’obiettivo di medio termine (OMT), posto che ciò non metta a rischio la sostenibilità di bilancio nel medio termine “. Se quello che stiamo vivendo non è un “periodo” che solleciti l’applicazione di questa clausola, quale mai lo sarà?
Fino a qui però, siamo nel contesto della “eccezione”; del “temporaneo”. Dunque, della emergenza che reclama rimozione dei vincoli per gli Stati membri. Benissimo. Ma i bilanci degli Stati membri sono diversi: ammesso che tutti usino lo spazio fiscale che hanno (e lo faranno, tutti. Oh, se lo faranno…), il motore così alimentato (ed aiutato dalla politica monetaria-anche selettivamente- ultraespansiva) non avrebbe la potenza di traino necessaria per uscire dal pantano della crisi. E, soprattutto, sarebbe un motore che fornisce una spinta asimmetrica, mentre nel pantano della crisi ci sono tutti gli Stati membri.
L’Eurozona deve dotarsi di un suo bilancio
Tutt’altra cosa se l’attivazione della clausola sospensiva è da intendersi come la prima, indispensabile scelta sulla strada che conduce l’Area dell’euro a dotarsi di un suo bilancio. Altro che dilemma su cui è bloccato il Bilancio dell’Unione: l’1% del PIL dell’Unione o l’1,..? No, si deve trattare di quel Bilancio dell’Euroarea -uscite proprie ed entrate proprie- che può finalmente far camminare “mano nella mano” la politica monetaria e quella fiscale, altrimenti destinate a neutralizzarsi (quando va bene), o ad ostacolarsi (quasi sempre) reciprocamente.
Nel giugno del 2018, a Meseberg, Merkel e Macron sostennero di comune accordo “l’istituzione del Bilancio dell’Eurozona. Per la competitività, la convergenza, la stabilizzazione, a partire dal 2021” (dal comunicato finale). Allora, fu il governo italiano Conte 1º a mandare tutto all’aria, inseguendo la sua propaganda sull’immigrazione e la Legge di bilancio balconara. Adesso, molto opportunamente, è lo stesso Conte -a capo di un diverso governo- a proporre che il MES emetta titoli di debito per finanziare gli interventi europei nella crisi coronavirus. È un bel cambiamento. Che l’Italia potrebbe robustamente sostenere attraverso due iniziative politiche: il voto del Parlamento per ratificare il trattato sul “nuovo” MES e l’approvazione di una mozione parlamentare che, impegnando il governo a compiere ogni sforzo per decidere, con gli altri partner dell’euro, per la creazione di un Bilancio dell’Euroarea, affermi solennemente che esso non deve essere rivolto a mettere in comune i debiti passati (quelli, sappiamo di averli usati male e di doverli pagare noi), ma a fare investimenti futuri sul futuro comune.
Presidente di Libertà Eguale. Viceministro dell’Economia nei governi Renzi e Gentiloni. Senatore dal 1994 al 2013, è stato leader della componente Liberal dei Ds, estensore del programma elettorale del Pd nel 2008 e coordinatore del Governo ombra. Ha scritto con Giorgio Tonini “L’Italia dei democratici”, edito da Marsilio (2013)