di Giovanni Cominelli
Il governo giallo-verde è caduto per ragioni di programma, cioè di base sociale, e di tattica politica.
Perché è caduto il governo M5S – Lega
Le prime sono evidenti. E’ caduto sulle infrastrutture, cioè su questioni di sviluppo economico, che interessano tutto il Paese, ma in primo luogo il Nord, e sulle questioni istituzionali: l’autonomia delle Regioni del Nord. I due elettorati, quello leghista, principalmente a Nord, e quello pentastellato, principalmente a Sud, hanno esercitato ciascuno una pressione crescente sulle proprie rappresentanze politiche.
Quelle tattiche si sono, però, rivelate decidenti. Salvini era reduce dall’exploit delle elezioni europee, in forza del quale è passato dal 17% delle elezioni nazionali al 34%, ma i sondaggi più recenti lo davano al 38%. Il percorso inverso lo avevano fatto i 5S, passati dal 32,7% delle elezioni nazionali al 17,07% delle europee. Gli scenari per Salvini sono divenuti irresistibili: trasformare la percentuale europea in voti nazionali. Detto in altri termini: “prendere in mano il Paese”. Il che voleva dire: sradicarlo dall’Euro e dall’Europa e portarlo a spasso nei campi di battaglia mondiali, dove si combattono – per ora solo a freddo – la Cina, gli USA, la Russia, l’India… alleandosi ora con questo ora con quello. Sul piano degli assetti della nostra democrazia, non si accingeva certo ad una nuova San Sepolcro, ma era attratto dallo stile di Putin e Orban. Dunque, intenzioni pericolose per il Paese, più le prime che le seconde.
Rispetto a questi scenari la sinistra e la destra liberale protestavano del tutto impotenti. La sinistra era lacerata al proprio interno e la destra anche di più. Per i 5S la volontà di Salvini di correre al voto non era pericolosa, né per ragioni geopolitiche – il M5S aveva addirittura promesso un referendum sull’uscita dall’Euro – né per ragioni democratiche – avevano appena approvato insieme la riduzione dei parlamentari e sostenuto il Decreto sicurezza – ma più radicalmente per ragioni esistenziali: le elezioni subito minacciavano semplicemente la sopravvivenza dei 5S. Eppure continuavano a non battere ciglio. A quel punto Salvini è inciampato clamorosamente nella propria felpa ed è caduto. E ha trascinato con sé il suo compare: Di Maio. Avendo bruciato la pizza, alle sue spalle è arrivato Giuseppe Conte, trasformatosi da cameriere in chef, non esattamente (penta-)stellato.
L’errore di Salvini, manna dal cielo per le opposizioni
L’inciampo di Salvini nella sua “ybris” è stata un’improvvisa manna dal cielo per una sinistra e una destra vaganti nel deserto senza acqua e senza cibo. Berlusconi si è rivolto a Salvini: andiamo insieme ad elezioni e vinciamo. Scenario tutt’altro che irrealistico, considerate le condizioni politico-culturali della sinistra. Zingaretti: andiamo al voto! Tanto perdiamo, ma almeno mi eleggo una maggioranza parlamentare a mia immagine. Renzi, a sua volta, non essendo mai stato d’accordo, neanche su un virgola, con il M5S, ha scoperto una piattaforma comune: la paura di una drastica riduzione di presenza sulla scena parlamentare. Nel PD ha trovato alleanze già pronte, in nome di forte propensioni governiste e filo-M5S.
E’ dunque nato il governo giallo-rosso, la cui formula ha oscillato, nel dibattito, tra governo istituzionale, governo costituente, governo di legislatura… Né è ancora chiaro cosa sarà. Dal punto di vista del PD, esso si propone di fermare Salvini e di ridurlo elettoralmente. Il primo obbiettivo è stato facilmente raggiunto, complice Salvini. Quanto al secondo, si vedrà. Dal punto di vista del M5S, si tratta di continuare a perseguire il programma di governo già concordato con Salvini, cambiando tuttavia spalla al fucile. La dialettica interna resta imprevedibile, così come la competizione per la leadership tuttora in corso e la definizione di un asse politico-culturale ben identificabile.
Il PD. il prezzo da pagare: la nuova legge elettorale.
Intanto, chi ha deciso di pagare un prezzo molto alto a questa alleanza è il PD. Il programma in 29 punti è fatto di brevi cenni sull’universo. Manca solo la promessa ai cittadini di farli camminare sulle acque.
C’è però un punto scabroso: la riduzione del numero dei parlamentari, fortemente voluta dal M5S. Dal loro punto di vista, è una questione decisiva: si tratta di ridurre il ruolo del Parlamento, nel nome delle sorti magnifiche e progressive della democrazia referendaria. Ora, pare che il PD, dopo aver votato contro in Parlamento, abbia accettato il punto di vista M5S-Lega, ponendo quale condizione il ritorno ad una legge elettorale proporzionale. Rimanendo la legge attuale, in effetti, la diminuzione avvantaggerebbe di molto i partiti più grandi, spianando dunque la strada a Salvini. Il quale, non a caso, era d’accordissimo con la proposta del M5S.
Il ritorno alla Prima repubblica
Che cosa comporta per il PD questa scelta, oggi giustificata con la necessità, costi quel che costi, di fermare Salvini? Semplicemente, l’abbandono del “partito a vocazione maggioritaria”, la rinuncia ad ogni bipolarismo e, pertanto, ad ogni riforma istituzionale. Torniamo a Canossa, quella della Prima repubblica, dalla quale in realtà non siamo mai usciti; ma, almeno, il PD dall’epoca di Prodi e Veltroni si era mosso in uscita verso le porte Scee per combattere la battaglia della Seconda Repubblica, la cui posta in gioco era la possibilità per i cittadini di scegliere, almeno indirettamente, il governo e di garantirne la stabilità. Ora il PD torna indietro, verso il Paese di sempre: il Paese dell’indecisionismo, del galleggiamento, del debito pubblico, delle riforme impossibili. Un Paese stanco, senza audacia. Un Paese politico democristiano-doroteo.
Non mancano, naturalmente, motivazioni soffertamente “pensierose” – l‘invito al realismo, contro il testimonialismo idealista e impotente; la teoria del meno peggio e della riduzione del danno; sempre meglio il Purgatorio dell’Inferno – nonché arrampicate sul marmo e giravolte tattiche per giustificare gesuiticamente questa inversione a U.
La domanda insorgente è: sarà in grado un governo cosiffatto di fermare il pericolo-Salvini? Cioè di sciogliere o di ridimensionare il blocco elettorale che lo sostiene? Cioè di rispondere al bisogno del suo elettorato – in primo luogo del Nord – di riforme della giustizia e dell’amministrazione, di decisioni rapide, di governi stabili, di federalismo, che il mondo produttivo del Nord e non solo richiede da anni?
L’unico dato certo è il riaggancio all’Europa. Ma l’Europa è solo la cornice più favorevole per affrontare i nostri problemi storici. Composizione e programma di governo sono tali da poter muovere con decisione sulla strada della loro soluzione? Al momento non pare.
E’ stato consigliere comunale a Milano e consigliere regionale in Lombardia, responsabile scuola di Pci, Pds, Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola, membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi e del CdA dell’Indire. Ha collaborato con Tempi, il Riformista, il Foglio, l’ Avvenire, Sole 24 Ore. Scrive su Nuova secondaria ed è editorialista politico di www.santalessandro.org, settimanale on line della Diocesi di Bergamo.
Ha scritto “La caduta del vento leggero”, Guerini 2008, “La scuola è finita…forse”, Guerini 2009, “Scuola: rompere il muro fra aula e vita”, BQ 2016 ed ha curato “Che fine ha fatto il ’68. Fu vera gloria?”, Guerini 2018.