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di Alberto De Bernardi

 

Battute finali

Ormai la campagna delle primarie del Pd è entrata nel vivo. Mancano ormai quindici giorni alla data fatidica del 3 marzo, ma soprattutto per la responsabilità dei candidati accreditati di maggiore consenso la posta in gioco di quella complessa partita non è chiara agli elettori anche perché l’eccessivo lasso di tempo fatto trascorrere tra le elezioni dell’anno scorso e la data del congresso ha in parte intorbidato le acque e in parte ha modificalo lo scenario iniziale facendo perdere pregnanza e significato al progetto di chi si era subito candidato a guidare il partito nella direzione di un suo ritorno nel campo della sinistra storica di tradizione comunista, cioè fuori da quello nel quale faticosamente il Pd aveva cercato di mettersi dalla sua fondazione, togliendo non casualmente la ‘S’ alla vecchia sigla del partito fondato da Occhetto.

Un processo però si è venuto chiarendo. In effetti le proposte in campo sono due, quella di Zingaretti e quella di Giachetti, perchè quella di Martina si è persa per strada: “fiancoafianco”, ma senza sapere dove andare, perché stare in mezzo tra Giachetti e Zingaretti non solo non è facile, ma per certi aspetti impossibile, per la semplice ragione che il progetto del governatore del Lazio non ammette varianti in rapporto al suo obbiettivo di fondo che è quello di ricostruire i Ds in funzione di una grande alleanza con i populisti. A questo progetto c’è una sola alternativa possibile che è quella di puntare a fare del Pd un grande partito europeo di matrice liberalprogressista. In sostanza fare del Pd il Pd, come era stato pensato nel 2008 e poi narcotizzato nel partito-ditta di Bersani e D’Alema. Ma questo non è l’obbiettivo di Martina, lo è forse di una parte dei martinani, ma non del suo reale gruppo di riferimento, che ancora si sta avvitando nel fare i conti con Renzi e i governi Pd.

 

Un’alleanza senza alternative

Come è ovvio Zingaretti in questa fase si barcamena non potendo dichiarare il suo effettivo progetto politico non solo perché il M5s si sta rivelando molto peggiore di ogni più fosca aspettativa – se ne è reso conto persino un maitre à penser come Galli della Loggia, per natura non avvezzo a cambiare idea – ma anche perché si sta probabilmente rendendo conto che sulla base di quel progetto non riesce a incrementare il suo consenso oltre un risicato 47-49 per cento. Nonostante la spinta di Leu, che si rende perfettamente conto del fallimento del suo progetto e che spera di poter avere qualche spazio per il suo ceto politico solo nel Pd a trazione zingariettiana, nonostante l’appoggio di Repubblica e del gruppo Cairo, nonostante i talk show amici, questa candidatura non ha sfondato. E’ un vincitore dato per certo da un anno, che però alla prima prova non ha vinto e che rischia di non vincere neanche alla seconda, perché è sempre più debole la sua autonomia dai suoi fiancheggiatori, che esplicitamente caldeggiano la sua vittoria per un ritorno al passato.

Eppure questa rimane l’unica carta politica effettiva non solo dell’area zingarettiana del Pd ma di tutta la sinistra – da Leu ai melenchoniani e ai corbyniani di casa nostra – perché l’alleanza con i 5s non è mero tatticismo e né semplice gioco politico per entrare nella stanza dei bottoni, ma affonda le sue radici in un’analisi della fase che siamo vivendo dotata di una sua profondità. E’ stato recentemente D’Alema, che è il vero capo politico di questo campo di forze a sinistra del Pd, a chiarire la prospettiva politica che sta alla base del progetto di creare un’alleanza sinistra-5s. La contrapposizione non è europeismo liberal-progressista contro populismo, ma sinistra contro neoliberismo, all’interno della quale il populismo, individuato semplicemente come una febbre passeggera alimentata proprio dalle contraddizioni del neoliberismo, può essere utilizzato soprattutto perché attraversato da elementi di sinistra “anticapitalistici”.

 

Neoliberismo e globalizzazione

Questo è il nodo politico che ha contrapposto nel Pd Renzi e la sua minoranza interna negli ultimi anni e che oggi attraversa prepotentemente il dibattito congressuale. In effetti noi non stiamo più vivendo in una epoca dominata dal neoliberismo, che è stata una ideologia che ha effettivamente guidato l’affermazione della globalizzazione dalla fine degli anni ottanta fino alla sua crisi del 2007-2008 a tal punto da fare coincidere i due termini nell’immaginario collettivo, come se globalizzazione e neoliberismo fossero la stessa cosa o meglio fossero i due lati della stessa medaglia. Stiamo vivendo l’esito in gran parte ancora irrisolto della sua crisi. Siamo oltre da quando la Fed decise di intervenire massicciamente per salvare banche e imprese negli Usa; da quando Draghi lancio il QI mettendo la Bce a presidio dei debiti sovrani degli stati europei in difficoltà.

Proprio dalla crisi emerge che globalizzazione e neoliberismo non sono la stessa cosa: la globalizzazione, per dirla con Giddens, rappresenta “l’intensificazione delle relazioni sociali globali che collegano località distanti in un modo tale che gli eventi locali vengono modellati da eventi che si verificano a molte miglia distanti, e viceversa” nella quale trova spazio l’integrazione degli scambi mondiali sia commerciali sia finanziari. E’ indubbio che questo salto impensabile dell’integrazione del mondo a tutti i livelli, sia stato favorito dall’egemonia culturale del neoliberismo, che ha imposto la deregolamentazione a base statale delle transazioni economiche a tutti i livelli in nome di un antistatalismo assoluto, che ha fatto venire meno la capacità della politica di tenere a bada la distruzione creatrice propria del capitalismo attraverso il welfare e l’economia mista come era accaduto nel quarantennio postbellico dominati da un capitalismo statalmente regolato.

La globalizzazione dominata dal neoliberismo ha avuto due volti. Ha fatto uscire dalla povertà quasi tre miliardi di persone in Asia, in Africa e in America Latina, che avevano conosciuto il volto nero di quell’economia sociale di mercato che si era imposta in occidente dagli anni cinquanta, costituito dal sottosviluppo e dal neocolonalismo. Ha però precipitato le classi medie occidentali che avevano goduto gli effetti sociali del capitalismo statalmente regolato in uno spazio di insicurezza sociale – in molti casi più percepito che reale, perché in Europa il welfare non è mai stato effettivamente messo in discussione anche se eroso nei suoi presupposti assistenzialistici e universalistici – che i “trenta gloriosi” avevano fatto dimenticare a due generazioni di cittadini su entrambe le sponde dell’Atlantico.

Questo progressivo arretramento dell’Occidente è dipeso dal fatto che pur essendo il centro propulsivo della globalizzazione, possedendone le basi economiche e tecnologiche, è cresciuto negli ultimi trent’anni molto meno dei “nuovi arrivati”, che erano paesi immensi come la Cina o l’India, la Russia o il Brasile. In questo contesto la caduta progressiva di ogni vincolo allo spostamento delle persone, che era un’altra delle caratteristiche fondamentali della globalizzazione – uomini e cose si muovono liberamente nei quattro continenti accompagnati da una omologazione culturale prepotentemente favorita dal web – ha alimentato non solo il rifiuto delle ingiustizie sociali del neoliberismo, ma anche della globalizzazione, vissuta come agente di una insicurezza ben più profonda di quella sociale, perché toccava gli elementi costitutivi – culturali, religiosi, etnici – dell’identità collettiva.

 

Come si esce dalla crisi. Due vie

Ora però noi non stiamo più vivendo nell’epoca della grande bolla neoliberista, stiamo vivendo in un’altra caratterizzata dalla crisi di quel modello di globalizzazione nella quale siamo di fronte a una inattesa contraddizione che mise in luce lo storico americano Tony Judd alla fine del suo fondamentale lavoro sul Novecento; la contraddizione tra lo sforzo di ripensare non più su scala nazionale la politica di coesione sociale basata sugli scopi collettivi e l’erosione della società per mezzo della politica della paura. Come era già accaduto negli anni Trenta, di fronte alla gigantesca crisi economica di allora si presentarono due vie entrambe lontane dalle ortodossie economiche liberali che avevano guidato gli “anni ruggenti” del primo dopoguerra: l’autarchia razziale e militarista dei fascismi o l’integrazione sociale democratica del New Deal. Ci vollero 50 milioni di morti per risolvere lo scontro tra queste due vie e ricomporre quella relazione tra capitalismo e democrazia che per Weber era il connotato fondamentale dell’eccezione rappresentata dall’Occidente, ma che la guerra e il fascismo avevano drammaticamente smentito.

Il dilemma evidenziato da Judd è radicale e antitetico come quello che si presentava agli occhi dell’opinione pubblica occidentale quasi un secolo fa: allora era tra fascismo e antifascismo, tra libertà e totalitarismo; oggi, anche se non si intravedono rischi cosi lugubri come allora, la scelta è tra due soluzioni che non ammettono compromessi e mediazioni: da un lato, la soluzione populista- sovranista, dall’altro, la democrazia liberale, sociale e inclusiva. Le crisi infatti “plasmano le nazioni” come ha messo in luce molti anni fa Gourevitch, perché uscirne non è solo una questione economica ma chiama in causa l’insieme delle risorse sociali accumulate dalle società e la necessità di rimetterle in movimento uscendo dalle ortodossie ereditate: è successo nelle tre crisi che hanno preceduto quella che stiamo ancora attraversando.

 

Plasmare le nazioni

La crisi però insegnano. Questa ha insegnato che la contrapposizione tra stato e mercato è controproducente come postulavano i neoliberisti, che il capitalismo non è una marea che alza tutte le barche, ma ne lascia arenate molte senza che lo stato corregga le sue distorsioni. Ma ha insegnato soprattutto a sinistra che senza mercato tutte le barche prima o poi si arenano sulla sabbia. Per governare l’economia globale ci vuole più stato e più mercato, laddove il primo però, soprattutto in Europa, contraddistinta da una somma di nazioni troppo piccole, non può ridursi a un ritorno alle vecchie regolazioni fordiste del tutto inadeguate a gestire la giustizia sociale in una scala che la globalizzazione proietta fuori dallo stato-nazione. Lo “stato” possibile deve essere una entità molto più grande che nel caso europeo non può che coincidere con l’area dell’Euro, cioè con un insieme di stati che hanno una moneta comune, cioè la base storica della nazionalità e della sovranità. Inoltre ci vuole più mercato perché combattere le diseguaglianze che il capitalismo genera non deve tradursi nel bloccare il meccanismo che produce ricchezza, nel frenare lo sviluppo delle forze produttive.

Tornando a Judd: da un lato, il populismo sovranista alla caccia di colpevoli e di chiusure antimercatiste rappresenta il vero partito della paura; dall’altro lato, il riformismo liberalsocialista si prefigge di governare la globalizzazione, sapendo, però, che l’ancoraggio tra democrazia e capitalismo non è più dato per scontato ma costituisce forse la parte più complessa e difficile della realizzazione di quell’obbiettivo. Deve infatti governarla dalla parte di quei gruppi sociali che fanno fatica a reggere il ritmo del cambiamento, nella consapevolezza che coniugare libertà e eguaglianza impone di andare oltre il progetto della “terza via” di Clinton, di Blair, di Schoder, di Gonzàlez, di Prodi, percorrendo una terra in larga parte ingognita. L’unica certezza che deve avere la sinistra liberale è che è possibile coniugare la democrazia con la giustizia sociale e lo sviluppo economico, come è accaduto nel xx secolo, solo se non si riduce ad essere il partito dei perdenti e degli esclusi della globalizzazione. E in effetti le sinistre radicali e i populisti hanno in comune proprio l’obbiettivo di combattere una battaglia contro la globalizzazione intesa come inevitabilmente neoliberista, in nome degli esclusi e delle vittime, scegliendo di fatto una via rinunciataria che li terrà lontani dallo sforzo di percorrere nuove vie, ma anche dalla effettiva competizione per plasmare davvero in senso sociale il nuovo volto delle nazioni.

 

L’antirenzismo, malattia senile della sinistra

E’ in questo contesto che va collocata l’affermazione di D’Alema dal quale ero partito, per coglierne tutte le implicazioni politiche e capire che la posta del congresso del Pd è strategica e riguarda la definizione del campo europeo nel quale collocare il partito. L’”antirenzismo”, al di là delle chiacchiere sul carattere del toscano o della deriva autoritaria rappresentata dalla sua proposta di riforma costituzionale, affonda le radici in questa contraddizione che la crisi ha messo drammaticamente in evidenza. Se di fronte a una società fluida e multietnica, fatta di persone più che di classi, che vive di fatto in una dimensione spazio-temporale irriducibile allo stato-nazione novecentesco perché mondiale e locale al tempo stesso, ma che possiede ancora un altissimo capitale sociale ereditato dall’universalismo progressista della seconda metà del Novecento, il compito dei riformisti debba essere rinunciare a cimentarsi in questa sfida limitandosi a difendere gli ultimi benefici del fordismo anche se questo comporta inevitabilmente un ritorno alla nazione come ultimo cavallo di frisia – il corbynismo è questo, in buona sostanza –; oppure accettare la sfida e riproporsi di delineare un nuovo modello di crescita nel quale libertà d’impresa, innovazione tecnologica e giustizia sociale costituiscano i nuovi perni su cui lasciarci definitivamente dietro le spalle la crisi della globalizzazione neoliberista.

La sfida è enorme e forse tutti e tre i candidati sono inadeguati a sostenerla: ma questa è la posta in gioco e a mio giudizio bisogna sostenere quel candidato che meglio degli altri l’ha individuata e si sta impegnando per lo meno per non rendere impossibile che il Pd sia il soggetto capace di assumersi questo gravosissimo compito: l’alternativa è un Pd ridotto a una bad company del sinistrismo novecentesco condannata a diventare una stampella del populismo.

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