di Ranieri Bizzarri
Con le dimissioni di Conte e l’inizio delle consultazioni da parte del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, si è ufficialmente aperta una crisi di governo che per diversi giorni aveva popolato solo le pagine dei giornali e vissuto nelle dichiarazioni roboanti e sovente sfacciatamente incoerenti di diversi leader. Il punto politico era però chiaro: Matteo Salvini, leader del partito che si è maggiormente rafforzato in questi mesi di esperimento politico populista, aveva nei fatti staccato la spina all’esecutivo. Le ragioni forse non le sapremo mai fino in fondo, ed in ultima analisi spettano agli storici. Ma molto probabilmente la necessità di affrontare una finanziaria estremamente onerosa (dai 20 ai 30 miliardi di Euro) sotto l’occhio vigile dei mercati e dell’Unione Europea, insieme allo stallo nella riforma per le autonomie delle regioni del Nord, hanno indotto il leader leghista a far saltare il banco.
Il riepilogo della crisi
La situazione appariva inizialmente confusa, con la Lega che chiedeva a gran voce il voto. Poco dopo la “sfiducia” mediatica a Conte, Matteo Renzi ha proposto un esecutivo a termine che affronti la difficile finanziaria, disinnescando l’aumento dell’IVA, e poi porti il Paese a votare. La proposta aveva un suo senso, soprattutto se si valutava la recente escalation di “putinismo” di Salvini: dichiarazioni aggressive da campagna elettorale permanente, linciaggio politico degli avversari, ampie zone d’ombra sui rapporti pericolosi con la Russia. Concedere a questo mix di arroganza politica nazionalista di andare ad elezioni senza freni avrebbe senz’altro precipitato al Paese in una campagna elettorale sguaiata e pericolosa, sempre sotto l’occhio inflessibile dei mercati.
Già, i mercati. E’ opinione comune tra molti politici italiani che – al netto delle chiacchere sulle interferenze Europee – tutto si possa fare e disfare nel Belpaese. Purtroppo il capitalismo globale, cui nessuno vuole alla fine rinunciare pena perdere la possibilità di vivere in un comodo contesto occidentale e tornare alle televisioni Radiomarelli, ammette la possibilità di investimenti finanziari basati sulla credibilità di un’economia. E precipitare in un confuso caos di propaganda nazionalista urlata da Riccione non è esattamente la modalità per mostrarsi affidabili e solventi agli occhi del mondo. Abbiamo già vissuto nel 2011 quello che può succedere quando il barometro dei mercati volge alla tempesta. Chi scrive, ad esempio, rischiava di non essere assunto presso un’istituzione dello Stato pur avendo vinto con merito un concorso pubblico, insieme a molte altre persone. E lo scenario oggi sarebbe peggiore.
Lo sa il Presidente Mattarella, nelle cui mani esperte risiede la gestione della crisi. Il governo a termine, anche se avrebbe il merito di risolvere il problema finanziario, appare inadeguato alle sfide di un paese occidentale la cui stabilità e credibilità di gestione politica è altrettanto importante che i conti in ordine. E pertanto si cerca una nuova maggioranza in Parlamento, a partire dalla possibilità di una convergenza tra PD e M5S. Una possibilità incredibile sino a poche settimane fa; ma la politica ci abitua a giravolte improvvise, e il M5S ha pur sempre una notevole maggioranza parlamentare che impedisce la formazione di qualsivoglia governo senza i pentastellati. Come segretario, Zingaretti si è incaricato di trattare per il PD; ed appare comprensibile la diffidenza verso i pentastellati e l’allegra formazione di un governo, qualsivoglia sia.
Alleanza Pd-M5s? Serve molta attenzione…
Tutto questo è cronaca, certo. Ma da una prospettiva riformista non possiamo certo accontentarci di mostrare che il Paese può offrire una prospettiva politica stabile di medio termine a Unione Europea e mercati. Proprio no, anzi. Occorre stare attentissimi, e uso il superlativo in maniera deliberata (anzi deliberatissima), alla progettualità politica di un’alleanza PD-M5S. Non è mistero per nessuno che M5S sia una forza populista sui generis, un mix tra l’algoritmo di google che offre agli utenti consumatori quello che più a loro interessa (per massimizzare il consenso) e un drammatico riassunto delle follie stataliste e manettare della sinistra degli ultimi quarant’anni. Il reddito di cittadinanza e il “decreto dignità” bastano e avanzano per mostrare la vera natura pentastellata. Il ricordo di un’età dell’oro mai realmente esistita, in cui i politici non rubavano, erano attenti al bene comune e non a depredare gli italiani mediante Banca Etruria o a fare violenza (morale? fisica?) ai bambini di Bibbiano e altrove, è una loro cifra squallida e esibita a più riprese. Tutto questo è completato da teorie antiscientifiche, decrescita infelice, necessità di protezione delle Nutrie, eccetera. Inoltre hanno da sempre adottato un metodo doroteo di porsi presso l’opinione pubblica: ad esempio l’avvocato del Popolo, prof. Conte, ha speso un intero discorso a definire Salvini un pericolo per la democrazia italiana; ma si tratta dello stesso Salvini cui è stato concesso tutto da M5S e che, alla fine, poverello, chiedeva solo “pieni poteri”. Non avesse rotto, Salvini, M5S e l’avvocato del Popolo (Prof. Conte) sarebbero rimasti i perfetti interpreti del partito di Bibbiano: pochette, abbronzatura, assistenzialismo, democrazia diretta e tanta violenza verbale.
Il PD, d’altro canto, rimane l’ultimo partito con vocazione realmente nazionale e democratica sulla scena, e non può sottrarsi al suo DNA di forza che sostiene il Paese, costi quel che costi. Tuttavia, non si può negare che dalla nascita della segreteria Zingaretti nel PD abbiano ripreso fiato tutte quelle componenti antiriformiste che guardano con nostalgia ad un passato economico e sociale che non esiste più. Questo li rende pericolosamente sintonici con molti temi pentastellati. Un esempio divertente è offerto dalla Festa dell’Unità che si svolge in un quartiere della mia città, Pisa: Giuseppe Provenzano, membro della segreteria con delega al Lavoro, sarà l’ospite d’onore di un dibattito dall’incredibile titolo “Come creare lavoro con tutele e diritti per tutti”. Insomma, un brainstorming per ottenere una nomination al Nobel dell’Economia e non cancellare solo la povertà, ma dare piena occupazione a tutti.
Senza crescita non c’è redistribuzione
Per tutto questo, noi riformisti dobbiamo essere severissimi (ancora il superlativo) watch-dog, cani da guardia, del futuro governo. Il fatto che il documento della Direzione PD approvato il 21 agosto all’unanimità, richiami ad un “governo di rinnovamento in chiave redistributiva” fa parecchio pensare. Il problema in Italia si chiama crescita, termine mai usato nel documento approvato. Senza crescita non si redistribuisce un bel niente. Senza crescita il PD è e sarà, che lo voglia o meno, il classico partito delle tasse. Se ne può fare a meno.
In conclusione, l’epoca e lo scenario politico sono quelli che sono; e la vigliaccheria istituzionale del voto subito condurrebbe solo ad un “putinismo vitellone” di Salvini (felice espressione di un collega) con serissimi rischi per la tenuta del Paese. Ma un governo M5S-PD, magari aperto solo a Leu e qualche autonomista, non è privo di rischi. Sta in primis a noi riformisti vigilare: senza crescita e con più tasse, la disaffezione pubblica e le tendenze autonomiste ed eversive sono destinate a crescere, rendendo inevitabilmente vincente un populismo ancora più aggressivo, e forse molto meno vitellone, nei prossimi anni.