di Vittorio Ferla
“Ciascuno a suo modo, Singapore, Taiwan e Hong Kong – tre posti con caratteristiche socioeconomiche e politiche notevolmente diverse – sono stati in grado di interrompere la catena della trasmissione della malattia. E lo hanno fatto senza abbracciare le misure drastiche e altamente dirompenti adottate dalla Cina. Il loro successo suggerisce che anche altri governi possono fare progressi”. Così scrive sul New York Times Benjamin J. Cowling, professore di epidemiologia delle malattie infettive all’Università di Hong Kong.
Buone pratiche dai paesi asiatici: l’esperienza di Hong Kong
A Hong Kong, per esempio, città che condivide un confine con la Cina continentale ed è formalmente parte della Cina, spiega Cowling, “subito dopo il primo caso dichiarato a Wuhan, sono state ampliate le stazioni di screening della temperatura esistenti nei luoghi di ingresso e ai medici locali è stato chiesto di segnalare alle autorità sanitarie della città qualsiasi paziente con febbre o sintomi respiratori acuti risalendo alla ‘storia’ del recente viaggio a Wuhan”. Dopo i primi cinque giorni di controlli, prosegue Cowling, “chiunque attraversava il confine – specie se proveniente dalla Cina continentale – doveva sottoporsi a un periodo obbligatorio di auto-quarantena di 14 giorni. Allo stesso modo sono stati rintracciati e messi in quarantena quanti hanno avuto stretti contatti con i positivi registrati. E siccome la trasmissione poteva verificarsi prima che una persona infetta mostrasse i sintomi, la tracciatura ha incluso tutte le persone che erano entrate in contatto con il paziente a partire da due giorni prima dell’inizio della sua malattia”.
I monitoraggi digitali in Corea
Tra le buone pratiche segnalate dalla Technology Review del MIT di Boston c’è il monitoraggio che la Corea del Sud sta realizzando sui cittadini in quarantena tramite una app per smartphone – sia Android che iPhone – sviluppata dal Ministero degli Interni e della Sicurezza. In sostanza, come ricorda Max S. Kim nell’articolo, “migliaia di persone nel lockdown del coronavirus saranno monitorate per rilevare i sintomi, per assicurarsi che restino a casa e che non diventino dei ‘super-diffusori’ del virus; per tenere traccia della loro posizione e per assicurarsi che non stiano rompendo la quarantena sarà utilizzato anche il GPS”. L’adozione di queste misure di monitoraggio tecnologico ha considerevolmente limitato l’esplosione dei contagi e, di conseguenza, dei decessi.
“C’è un limite alle risorse umane disponibili per i governi locali per monitorare le persone in quarantena”, afferma Jung Chang-hyun, funzionario del ministero che ha supervisionato lo sviluppo dell’app. “L’app è un servizio di supporto volto a rendere più efficiente l’attività di osservazione”.
Aggiunge Jung: “Le persone possono uscire dalle aree di quarantena sia intenzionalmente che per errore: ma poiché esiste il rischio di infezione secondaria in entrambi i casi, speriamo che l’app, con una maggiore organizzazione, possa aiutare a bloccare questi incidenti”. L’app si unisce a un elenco di altre misure lanciate per combattere l’ondata di nuovi casi in Corea del Sud, tra cui: le stazioni di test “drive-through” per verificare la positività al coronavirus (circa 15 mila al giorno in più), una serie di servizi cartografici sviluppati da privati che monitorano gli spostamenti dei positivi, gli avvisi di emergenza che i governi municipali e distrettuali inviano regolarmente ai telefoni delle persone per informarli di nuovi casi di coronavirus. Ricordiamo che in Corea del Sud, dopo l’esplosione iniziale la curva dei contagi ha già iniziato a flettere: mentre scriviamo, sono morti circa 70 pazienti su circa 8 mila contagi (numeri assai modesti rispetto al caso dell’Italia). Importante la disponibilità del governo sudcoreano a condividere la sua tecnologia con altre nazioni: “Non abbiamo ancora avuto richieste da altri paesi, ma se arrivassero, saremmo pronti a condividere assolutamente queste esperienze”, assicura Jung.
Singapore: indagini a partire da un database
Qualcosa del genere è accaduto a Singapore. “Colpita in anticipo, per il fatto di essere uno dei principali partner commerciali della Cina, ma forte dell’esperienza con il virus SARS del 2002-3, Singapore ha iniziato a monitorare attentamente i casi per trovare i punti in comune che li collegavano. Nel giro di un giorno o due, successivi alla scoperta di un nuovo caso, le autorità sono state in grado di mettere insieme la complessa catena di trasmissione da una persona all’altra, come un moderno Sherlock Holmes in possesso di un database. A partire da febbraio, tutti coloro che sono entrati in un edificio governativo o aziendale a Singapore hanno dovuto fornire i dettagli di contatto per accelerare il processo”. A raccontare la vicenda di Singapore, ancora una volta sulla Technology Review del Mit, è Spencer Wells, genetista, antropologo, già collaboratore della National Geographic Society. Secondo Walls, “non è semplicemente la capacità di rilevare i casi e spiegare perché sono successi che rendono Singapore un modello di riferimento in questa epidemia: kit di test per acido nucleico sono stati rapidamente sviluppati e distribuiti nei luoghi di entrata al paese. Entro tre ore, mentre gli individui vengono messi in quarantena sul posto, i funzionari possono confermare se sono stati infettati o meno dal virus prima di consentire loro di entrare”.
Taiwan: screening dei casi e tracciamento digitale
Il caso di Taiwan – a un passo dall’epicentro dell’epidemia, quasi 24 milioni di abitanti, più del doppio della Lombardia, concentrati in poco più di 36 mila km quadrati – lo racconta bene sul suo profilo Twitter Fabio Sabatini, docente di politica economica dell’Università La Sapienza. “Data la frequenza dei voli dalla Cina, si prevedeva che Covid-19 avrebbe travolto l’isola, invece ha registrato soltanto 50 contagi e 1 decesso: come hanno fatto?”, si chiede l’economista. Ecco la sua ricostruzione: “Grazie all’esperienza della SARS, Taiwan ha riconosciuto subito l’emergenza. Il 31 dicembre 2019, tutti i passeggeri provenienti da Wuhan sono stati sottoposti a screening a bordo, prima di scendere dall’aereo. I passeggeri sbarcati da Wuhan nei 14 giorni precedenti sono stati rintracciati e visitati. Quelli con sintomi sospetti sono stati messi in quarantena e accuratamente monitorati. Pochi giorni dopo, le autorità hanno integrato il database delle informazioni sanitarie di tutti i cittadini con i dati dell’agenzia dell’immigrazione. Sono state rintracciate tutte le persone a rischio, che avevano recentemente manifestato sintomi e avevano storie di viaggio sospette. Inoltre, il sistema integrato genera un allarme ogni volta che un paziente a rischio chiede assistenza medica, consentendo ai sanitari di identificare immediatamente i potenziali casi di Coronavirus”. Ovviamente non è mancata la fase del contenimento anche a Taiwan. Ma anche questo è stato realizzato con strumenti digitali. “I pazienti a rischio – perché con sintomi, per aver transitato in aree a rischio nei 14 giorni precedenti o per eventuali contatti con dei contagiati – sono messi in quarantena e testati. Inoltre – avverte Sabatini – devono installare sullo smartphone una app per il monitoraggio di sintomi e spostamenti. Grazie al sistema di tracciamento mediante lo smartphone, è possibile ricostruire la rete di contatti di tutti i contagiati, al fine di testarli, curarli in isolamento e interrompere la catena di contagio”. Come si legge nell’editoriale di Jason Wang, della Stanford University, pubblicato sul Journal of The American Medical Association, il governo ha informato i cittadini con conferenze stampa e comunicati estremamente dettagliati: “un po’ diversi dai bollettini della nostra Protezione Civile, purtroppo”, chiosa Sabatini. È stato spiegato pubblicamente che, a causa dell’emergenza, gli ospedali e le farmacie avrebbero temporaneamente avuto accesso alle informazioni sui viaggi dei pazienti. Secondo i sondaggi il pubblico ha reagito molto bene. Nel frattempo scuole, università, palestre e ristoranti sono rimasti aperti. Se e quando il virus si diffonderà, le autorità potranno così contare su un sistema di contrasto già ben rodato.
Tracce digitali per impedire il contagio (e salvare l’economia)
Ovviamente, ricorda Sabatini, “per noi è tardi e il lockdown è necessario. Tuttavia, c’è il rischio che, se non si tracciano i contagiati e la loro rete di contatti al fine di isolarli e curarli, al primo allentamento del lockdown l’epidemia riprenderà a galoppare”.
Una deduzione confermata dal paper appena pubblicato su Lancet per il quale bastano pochi casi isolati in circolazione per rilanciare il contagio. In conclusione, avverte Sabatini, “in Italia abbiamo bisogno di un sistema di tracciamento simile a quelli dei paesi orientali che stanno riuscendo, per ora, a contenere l’epidemia. Che cosa aspettiamo?”.
Nelle scorse settimane due studiosi come Alfonso Fuggetta, professore di Informatica del Politecnico di Milano, e Carlo Alberto Carnevale Maffè, docente di Strategia dell’Università Bocconi, hanno proposto alle istituzioni italiane un progetto per l’uso di big data per il governo strategico dell’epidemia. Ma sono rimasti inascoltati. “La Corea del Sud sta sconfiggendo l’epidemia anche grazie a semplici tecnologie di contact tracing del contagio su smartphone. In Italia, è stato proposto alle autorità l’uso delle stesse tecnologie, settimane fa, ma hanno preferito il modulo cartaceo con l’autodichiarazione”, ha scritto Carnevale Maffè su Twitter. “In Corea del Sud – aggiunge Carnevale Maffè in un altro tweet – il fattore di riproduzione (R0) è già stimato sotto 1, grazie alla georeferenziazione dei casi di contagio e alla identificazione dei singoli focolai su mappe molto precise. Le tecnologie salvano la vita, nel rispetto della privacy”. Questo perché la proposta si basa su un processo di raccolta dei dati in forma anonima e quindi nel pieno rispetto della privacy delle persone.
Verrebbe da dire che, di fronte ai limiti della libertà di movimento e di impresa, alla distruzione del lavoro, all’impoverimento generalizzato e al suicidio dell’economia di un intero paese, una piccola rinuncia alla privacy non sarebbe poi così grave. Qualcuno potrebbe pure obiettare che non ci sono risorse sufficienti per un’operazione del genere. Ma ne servirebbero infinitamente di meno rispetto a quelle che saranno necessarie per resuscitare l’economia.
Giornalista, direttore di Libertà Eguale e della Fondazione PER. Collaboratore de ‘Linkiesta’ e de ‘Il Riformista’, si è occupato di comunicazione e media relations presso l’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale del Lazio. Direttore responsabile di Labsus, è stato componente della Direzione nazionale di Cittadinanzattiva dal 2000 al 2016 e, precedentemente, vicepresidente nazionale della Fuci. Ha collaborato con Cristiano sociali news, L’Unità, Il Sole 24 Ore, Europa, Critica Liberale e Democratica. Ha curato il volume “Riformisti. L’Italia che cambia e la nuova sovranità dell’Europa” (Rubbettino 2018).