di Claudia Mancina
Non so se le dimissioni di Zingaretti siano una mossa, come si dice, per vedersi riconfermata la fiducia dalla prossima Assemblea. In verità non lo credo, perché dopo questo passaggio il segretario sarebbe ancora più debole. Ma anche se fosse così, non cambierebbe niente della gravità del gesto e dei motivi addotti per spiegarlo.
Leggere come questione di poltrone la rivolta delle donne per la scelta di ministri tutti uomini – capicorrente – e citare con disprezzo le primarie, che sono la cifra democratica propria del partito che così si chiama, è manifestazione forse di uno scatto di nervi, ma certamente anche di un grave sbandamento politico. Zingaretti è senz’altro una brava persona, come hanno detto in tanti, ma questa non è certo virtù politica sufficiente per guidare una realtà complessa come il Partito democratico. Il segretario ha rivendicato di aver preso più volte decisioni che non avrebbe voluto prendere, lasciandosi convincere: non si rende conto che così sta rivendicando la sua debolezza.
Mauro Calise ci ricorda sempre che oggi non ci possono essere partiti forti senza leader forti. Il Partito democratico o non ha leader forti o, quando li ha, fa di tutto per distruggerli. È la maledizione della sinistra, come sostiene Ezio Mauro? Penso piuttosto che ci sia un peccato originale del Partito democratico, alla cui nascita hanno presieduto, come le fate della fiaba, confusione e ambiguità, per breve tempo oscurate dal grande prestigio personale di Walter Veltroni, ma hanno finito per travolgerlo e riemergere.
Si trattava di una ambiguità sull’evoluzione riformista delle due forze da cui il partito si originava, che non è mai stata sviluppata sino in fondo: per esempio, per riferirmi alla tradizione post-comunista, l’ambiguità sul rapporto storico con la tradizione socialdemocratica, a cui ci si è accodati senza mai riconoscere i veri motivi della contrapposizione.
O, più in generale, il persistente spirito anticapitalistico e antiamericano, presente sia nei post-comunisti che nei post-democristiani, che è alla base di certe corrispondenze d’amorosi sensi con i populisti. A queste ambiguità si accompagnava la confusione tra il sano e necessario pluralismo tra visioni diverse del compito della sinistra riformista e liberale, e la strutturazione in correnti intese come catene di comando e distribuzione di posti.
Così l’articolazione interna è diventata una guerra per bande, il segretario un leader debole, le scelte un affare di mediazioni e di ricatti. Per una breve stagione è sembrato (a molti di noi) che Matteo Renzi potesse riportare il partito alla sua vocazione riformista, ma sappiamo com’è andata.
Non è forse ora di chiedersi, prima che sia troppo tardi, che cosa deve cambiare in questo partito? Non basterà appellarsi alla comunità, il cui spirito sembra molto fragile. Né sostituire il noi all’io può essere più che un misero espediente verbale.
Servono due cose: un leader forte, che possa essere criticato e contestato in modo democratico e sappia rispondere alle critiche. E serve una linea politica, perché il leader è tale se si identifica con una linea politica, non se si lascia trascinare di qua e di là. Qualcuno sa dire qual è la linea del partito? «Dalla parte delle persone», mi dispiace, è troppo poco.
Bisogna scegliere di stare dalla parte di chi lotta per lo sviluppo, per migliorare la condizione dei propri figli, per vivere appieno le opportunità e i rischi della fase storica di grande transizione che stiamo attraversando. E insieme, certamente, proteggere chi rimane indietro, sostenendolo nello sforzo di andare avanti.
Una versione aggiornata di «meriti e bisogni». Oggi, anche grazie agli errori del Partito democratico, e non solo per le spregiudicate manovre di qualcuno, c’è Draghi. La linea del partito non può essere altro che la sua.
Ma in questo tempo in cui il governo provvederà giustamente a commissariare la politica, il Partito democratico dovrebbe dedicarsi a elaborare non solo una leadership, ma soprattutto un’identità, una proposta per il futuro. Se non vuole estinguersi, a favore di forze un po’ più definite.
Va detto che le primarie, nella forma in cui vengono fatte, sono un grande momento democratico, ma non bastano. Ci vuole un momento di discussione politico-programmatica, che rielabori e aggiusti periodicamente la linea del partito, senza necessariamente mettere in campo cordate. Altrimenti, è paradossale, si dovrà ammettere che c’era più libertà politica nel centralismo democratico comunista, e più solidarietà nella frammentazione correntizia democristiana. Il Partito democratico è alla soglia dell’estinzione; bisognerà che se ne renda conto.
Pubblicato su Linkiesta.it il 6 marzo 2021
Già docente di Etica all’Università “La Sapienza” di Roma, fa parte della presidenza di Libertàeguale. Deputato dal 1992 al 1994 e dal 1996 al 2001 nel gruppo Pds/Ds, è membro della direzione nazionale del Partito democratico. Il suo ultimo libro è “Berlinguer in questione” (Laterza, 2014)