Mentre la commissione Orfini incaricata di rivedere la forma organizzativa del PD sta procedendo nel proprio lavoro istruttorio, sembra utile provare a dare uno stimolo ad una riflessione pubblica sulle ragioni che impongono una radicale revisione, se non una reinvenzione, del modello organizzativo di partito. Nel tentativo si terrà ben a mente la realtà dei circoli territoriali, ben nota a chi scrive.
Nessuna soluzione sembra avere realistiche possibilità di successo se non si terrà conto dei principali elementi di contesto in un paese radicalmente trasformato rispetto al periodo storico di affermazione dei grandi partiti di massa.
Fortunatamente, lo stesso vertice del PD sta finalmente realizzando che recuperare efficacia ed efficienza di un partito inizialmente trascurato è indispensabile per consentire al ciclo di riforme intrapreso a livello nazionale di trovare consonanza e di diffondersi anche agli imprescindibili livelli periferici.
Il paese ha vissuto negli ultimi anni un cambiamento radicale: la crisi ha fatto emergere in modo inconfutabile i limiti del nostro sistema economico, infrastrutturale, amministrativo e di welfare. Gli elettori hanno largamente attribuito la responsabilità al fallimento delle classi dirigenti che hanno condotto l’Italia alle soglie della crisi con fortissime sperequazioni, un enorme debito pubblico e un livello comparato di competitività estremamente più basso dei nostri concorrenti. Ne è derivata una preoccupante insofferenza nei confronti del sistema politico e una grandissima aspettativa di cambiamento. Proprio dando credibilmente corpo a quest’utlima aspettativa, grazie ad una nuova leadership, il Pd ha raggiunto livelli di popolarità e registrato successi elettorali mai ottenuti prima d’ora.
In questo scenario è proseguita la crisi del vecchio modello di partito anni ‘50. I dogmi si sono dimostrati inadeguati e si è sbriciolato il modello del partito-chiesa, sorretto ed animato da una militanza motivata da una fede priva di incertezze e disponibile con abnegazione ad un impegno organizzativo ed evangelico continuo e intenso. I partiti erano un tempo ricchi di risorse, con strutture enormi, fortemente piramidali, gerarchizzate, fortemente strutturate. Sono trascorsi molti anni, ma il modello organizzativo di riferimento dei partiti tradizionali resta in larga misura basato sulle stesse logiche. Logiche non più adeguate, perché fondate su dati di base non più realistici.
L’art. 49 della costituzione ci rammenta che “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Ai nostri fini è utile riflettere sull’individuazione dei partiti come strumento deputato a garantire la partecipazione politica (dal che discende l’onere di un’analisi organizzativa e di processo). Per consentire un’adeguata partecipazione nel nuovo contesto i partiti-strumento devono quindi procedere ad un radicale ripensamento del proprio modello organizzativo in una logica che tenga conto delle condizioni di contesto e dell’evoluzione tecnologica. Non si potrà più far riferimento a larghe masse di militanti privi di incertezze, ma si dovrà utilizzare ogni strumento per coinvolgere, motivare e coordinare un meno stabile ma non meno numeroso universo variabile di militanti e sostenitori pro-tempore. Ecco quindi la radicalità della sfida: diversi i punti di partenza, diverse le logiche, diversi gli strumenti.
Laurea in economia e commercio all’Università di Genova, master alla Bocconi, è dottore commercialista con competenze in servizi finanziari e assicurazioni e industria bancaria. Membro della direzione provinciale del PD di Alessandria e membro della direzione regionale del PD del Piemonte