di Stefano Ceccanti
Nel dibattito sulla forma di governo appena si evoca il premierato compare una critica facilmente confutabile, assieme ad altre ben più serie. Partiamo dalla prima: si tratterebbe di un modello o mai esistito o vivente solo in Israele negli anni ’90. Lì si eleggeva un Premier su scheda separata da quella per la Camera eletta con la proporzionale pura. Qualcuno lo propone? Nessuno: da noi le proposte di premierato sono legate a sistemi selettivi per il Parlamento, o con premio di maggioranza o con collegi uninominali maggioritari. A cosa assomiglia allora Israele? Al semipresidenzialismo della Repubblica di Weimar: elezione diretta di un Presidente della Repubblica e Camera con la proporzionale pura. Dire che chi propone il premierato (Premier più maggioritario) vuole Israele (premier con la proporzionale) equivarrebbe a dire che chi vuole il semipresidenzialismo francese (Presidente eletto col maggioritario) vorrebbe andare a Weimar (Presidente con la proporzionale). Ha senso? No.
Andiamo quindi alla sostanza. Cos’è il Premierato? E’ l’idea-chiave di un sistema con governi di legislatura scelti dagli elettori: un obiettivo di risultato. Evidentemente per conseguirlo non si possono clonare modelli altrui prescindendo dalla propria situazione di partenza. Se mi trovo in una zona altamente sismica non posso pensare di avere una casa stabile e sicura costruendola in modo identico a chi l’ha fatto su un terreno normale. Per questo dovrò partire dalle regole pensate per i sistemi parlamentari che hanno conseguito quei risultati, ma sapendo che le dovrò in qualche modo puntellare con qualche elemento ulteriore perché la mia condizione di partenza è peggiore. Non a caso quando abbiamo costruito la forma di governo e il sistema elettorale di comuni e regioni non siamo partiti da un modello già sperimentato altrove, ma da un modello rimasto teorico, quello della sinistra democratica francese, in particolare da Maurice Duverger e dal Club Jean Moulin (Premier e maggioritario), che però poi fu battuto da de Gaulle, che andò in una direzione diversa (semi-presidenzialismo e maggioritario). Per arrivare ai Governi di legislatura delle democrazie parlamentari dobbiamo quindi dotarci di un modello originale nelle regole, ma niente affatto originale nell’elaborazione teorica: variazioni del tema sono state proposte da Roberto Ruffilli, Serio Galeotti, Augusto Barbera, Sergio Fabbrini, la Tesi 1 dell’Ulivo, alla Bicamerale d’Alema da due ottimi testi di Cesare Salvi e, in tandem, di Armando Cossutta e Fausto Bertinotti (sì proprio loro, un ottimo testo, a me va bene anche quello alla lettera) e, infine, dalla Commissione di esperti del Governo Letta.
I cardini dovrebbero essere due.
Il primo riguarda la nascita dei Governi e richiede una qualche forma di coinvolgimento popolare formalizzato nella scelta della maggioranza e del relativo Premier. Il nostro sistema soffre infatti non da oggi di una difficoltà ad attenersi alle convenzioni più importanti che consentono alle forme di governo parlamentari di funzionare con modalità che coinvolgano il corpo elettorale nella genesi e nel mantenimento di Governi di legislatura. In Italia, senza un esito decisivo delle elezioni, i partiti, a differenza degli altri Paesi, non sono in grado di stabilire patti di coalizione post-elettorali intorno al chiaro criterio ordinatore di Governi costituiti intorno al leader pre-indicato agli elettori dalla forza più votata della coalizione medesima. E’ quello che Ruffilli, anche sulla scorta della collaborazione con Piero Alberto Capotosti, attento studioso delle convenzioni, proponeva di fare con lo strumento del premio a coalizioni pre-elettorali per rendere il cittadino arbitro della scelta sui Governi. Le riflessioni di Ruffilli restano valide anche nel secondo sistema dei partiti giacché, come hanno dimostrato gli ultimi casi di esito non risolutivo delle elezioni, 2013 e 2018, gli esecutivi di genesi partitica post-elettorale hanno avuto durata breve e non sono stati guidati da colui che era stato indicato prima del voto agli elettori dal primo partito (Letta e non Bersani, Conte e non Di Maio).
Il secondo cardine riguarda quello che succede dopo, per disincentivare le crisi dell’esecutivo che ha vinto elezioni. Esso non è separato, ma connesso al primo. Se per il primo si dovesse scegliere un’elezione diretta formale si finirebbe più o meno inevitabilmente al simul stabunt simul cadent che usiamo per Comuni e Regioni, ossia a elezioni automatiche per ogni crisi. Un sistema che mi pare troppo rigido per un livello nazionale. Questa è la vera obiezione, seria e profonda, da prendere sul serio, non Israele. Se allora, tenendone conto, si opta per un’indicazione del Premier, quindi su un Premierato non formalmente elettivo, ci possono essere ragionevoli margini di flessibilità, utilizzando in sostanza quattro articoli chiave della Legge Fondamentale tedesca come facevano anche, con qualche adattamento, Cossutta e Bertinotti: un unico rapporto fiduciario (o con una sola Camera o con il Parlamento in seduta comune) del solo Presidente del Consiglio, da instaurare a maggioranza semplice (art. 63), oltre alla previsione di poter richiedere la revoca dei ministri (art. 64); la sfiducia costruttiva a maggioranza assoluta (art. 67), lo spostamento parziale, sul Presidente del Consiglio del potere di scioglimento come deterrente contro le crisi (art. 68).
Accanto a questi due pilastri occorrerebbe inserire alcuni elementi di equilibrio come una chiara corsia preferenziale per il Governo in Parlamento che riduca l’anomalia dei decreti e il varo di un opportuno Statuto dei gruppi di opposizione che li incentivi all’aggregazione e l’innalzamento di alcuni quorum di garanzia nelle istituzioni, nonché l’abbassamento di quello previsto per i referendum abrogativi, in modo da valorizzarli come contropotere. Avendo così un premierato non elettivo in un sistema di equilibri rinnovati.
Vicepresidente di Libertà Eguale e Professore di diritto costituzionale comparato all’Università La Sapienza di Roma. È stato Senatore (dal 2008 al 2013) e poi Deputato (dal 2018 al 2022) del Partito Democratico. Già presidente nazionale della Fuci, si è occupato di forme di governo e libertà religiosa. Tra i suoi ultimi libri: “La transizione è (quasi) finita. Come risolvere nel 2016 i problemi aperti 70 anni prima” (2016). È il curatore del volume di John Courtney Murray, “Noi crediamo in queste verità. Riflessioni sul ‘principio americano'” , Morcelliana 2021.