L’Economist, con un pezzo intitolato «Why Italy should vote no in its referendum», si è schierato per il No al referendum. Va da sé che ce ne faremo una ragione. Tuttavia, l’editoriale del settimanale britannico è molto istruttivo e ci aiuta a chiarire qual è la posta in gioco.
Fateci caso, da quando in Italia si discute di riforme istituzionali, più o meno dalla fine degli anni Settanta (la Commissione Bozzi è stata istituita appunto nel 1983), la questione di fondo è sempre la stessa: l’Italia può diventare una democrazia parlamentare normale, oppure no? Vale a dire: può diventare una democrazia nella quale chi vince le elezioni può attuare il suo programma (dentro un quadro di garanzie fornite soprattutto dalla Corte costituzionale) e nella quale la valorizzazione dell’autonomia avviene senza conflitti paralizzanti tra centro e periferia? L’abbiamo ripetuto molte volte, il nodo politico della riforma del bicameralismo sta tutto qui.
Sono a confronto, infatti, da almeno trent’anni, due concezioni della democrazia: una è assembleare ed è fondata sulla cosiddetta centralità del Parlamento, l’altra è fondata sulla responsabilità degli Esecutivi. La prima era propria della peculiarità italiana del dopoguerra, parte dell’anomalia di un sistema politico caratterizzato dalla mancanza di alternanza (per capirci, governavano sempre gli stessi); la seconda è propria dei sistemi parlamentari più avanzati.
In tutti i paesi con i quali amiamo confrontarci (a cominciare dal Regno Unito) chi vince le elezioni nella prima Camera governa. E le garanzie che non travalichi i limiti posti dalla Costituzione sono date dall’organo di giustizia costituzionale e non da un Senato pensato per fare, in modo del tutto anomalo, da contraltare al Governo. Infatti, dappertutto le seconde Camere (che non danno la fiducia e dove il Governo non può porre la fiducia) hanno un potere paritario solo su leggi costituzionali e poco altro perché non devono impedire la governabilità.
L’Economist ha spiegato che l’Italia non può diventare una democrazia parlamentare normale. Insomma, quel che vale per gli inglesi non può valere per l’Italia, perché il nostro «è il paese che ha prodotto Benito Mussolini e Silvio Berlusconi ed è vulnerabile in modo allarmante al populismo». Inoltre, «il rischio dell’impianto di Renzi è che il principale beneficiario sia Beppe Grillo, un ex comico e leader del Movimento Cinque Stelle, una coalizione scombinata che chiede il referendum per uscire dall’euro (…) lo spettro di Grillo come primo ministro eletto da una minoranza e reso stabile nell’incarico dalle riforme di Renzi, è una prospettiva che molti italiani – e buona parte dell’Europa – troverebbero preoccupante». Oltretutto, conclude il settimanale inglese, se vince il No, «l’Italia può mettere insieme un governo tecnico di transizione come ha già fatto molte volte in passato». Chiaro, no?
Non per caso, Claudio Cerasa è tornato sulla questione sottolineando spiritosamente che «improvvisamente, gli storici avversari di Berlusconi stanno scoprendo di avere oggi gli stessi nemici che un tempo aveva Berlusconi: la Cgil, l’Associazione nazionale dei magistrati, Magistratura democratica, gli ambientalisti, la sinistra comunista, i partigiani della Costituzione, alcuni magistrati della procura di Palermo, lo stesso Economist. E la simpatica accozzaglia che oggi dice No alla riforma costituzionale ha un unico grande punto in comune: la difesa di un sistema istituzionale come quello attuale che premia la rappresentatività più che la governabilità e che, negando sufficienti poteri al presidente del Consiglio per governare, rende inevitabile la proliferazione dei professionisti del veto» (Why Economist is unfit to read Italy).
A dire il vero, c’è anche chi ritiene che una legge proporzionale e la permanenza del bicameralismo paritario potrebbero consentire un paio di conventio ad excludendum: verso la destra lepenista e verso il M5S. Insomma, la proporzionale «servirà appunto a bloccare l’ascesa dei Cinque Stelle: consentirà a tutti gli altri di fare muro contro di loro». I precedenti storici, ha tuttavia chiarito Panebianco, «non danno ragione a chi sostiene questa tesi. Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, in diversi Paesi europei vennero abbandonati i sistemi elettorali maggioritari fino ad allora in vigore e sostituiti con la proporzionale: lo scopo, almeno in alcuni casi, era quello di bloccare la crescita dei partiti socialisti. I vecchi partiti conservatori e liberali adottarono la proporzionale perché minacciati elettoralmente da competitori temibilissimi, la cui ascesa — essi pensavano — sarebbe stata irresistibile senza lo «sgambetto» della proporzionale. Si trattò di un calcolo sbagliato. Ad esempio, nei Paesi scandinavi, il passaggio alla proporzionale non riuscì affatto a bloccare la crescita elettorale dei socialisti e a tenerli a lungo lontani dal governo. Ma la storia, si sa, interessa poco ai politici (e al grosso dei loro elettori) per i quali conta soltanto il presente».
Sbaglierò, ma quella di «fare muro» contro i Grillini è un’illusione. Il vecchio sistema dei partiti non torna più, neppure ripristinando proporzionale e preferenze. La «metamorfosi» è già avvenuta. Nel vecchio sistema ci si faceva cittadini nel partito e del partito, perché non si riusciva ad esserlo interamente nello stato e dello stato. Adesso che l’identificazione e l’appartenenza (all’ideologia, all’utopia, alla morale del partito) non ci sono più, l’unica strada praticabile è quella di esaltare la possibilità della scelta, la responsabilità della scelta, l’esercizio della cittadinanza nello stato. Non si tratta di una questione tecnico-istituzionale, ma di una questione etico-politica. Caduti gli stimoli del passato, come si riattiva la partecipazione alla politica? Non è per questo che abbiamo scelto le primarie? Il rispetto della competenza decisionale degli individui non è forse l’unica risposta possibile a una crisi di fiducia ormai incontenibile?