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Persone con l’asterisco? Il caso del Liceo Cavour di Torino

Giovanni Cominelli lunedì 29 Novembre 2021
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di Giovanni Cominelli

Il Preside del Liceo Cavour di Torino ha deciso di non scrivere più “studente e “studentessa” nelle comunicazioni didattiche ufficiali, ma di scrivere “student*”, con asterisco. L’asterisco (o, più coltamente detto,  lo “šěwā’”, – Schwa, alla tedesca –  il segno linguistico ebraico, rappresentato nell’alfabeto latino con  ə e usato per indicare un suono vocalico debole) indica qualcosa a metà tra la desinenza “o” maschile e la desinenza “a” femminile. Insomma né maschio né femmina, ma un terzo genere, “aperto alle identità non binarie”. Dunque: “student*, ma anche “professor*, ma anche “signor*, forse anche “sindac*” ecc… L’articolo de La Stampa esalta con toni lirico-filosofeggianti questa trovata, perché collocata sulla “prima linea della nuova guerra dei sessi”. Quanto a noi adulti, l’articolista ci raccomanda di non aver paura: “le radici non devono aver paura dei propri fiori”, che sarebbero poi i nostri figli. In poche righe è sintetizzato il nuovo “luogocomunismo” di una minoranza ideologizzata, che si autolegittima come avanguardia del progresso. Dunque, avanti con il gender liquido, non binario! Distinguere linguisticamente tra maschio e femmina sarebbe un’intollerabile violenza contro la parità dei generi e contro la necessaria inclusione di genere.
Si tratta solo di un’operazione di purificazione linguistica dal maschilismo millenario? In effetti, “Le Robert”, il  noto vocabolario francese, sta già provando a introdurre una lingua sessualmente neutra.
Ma dietro c’è di più: l’ideologia/teoria del gender, i cui fondamenti sono già stati, ahinoi!, incorporati nell’art. 1 del DdL Zan, quando stabilisce per legge la distinzione tra “sesso biologico o anagrafico”, “genere”, “orientamento sessuale”. Un DdL per ora fortunatamente bloccato nel Parlamento.

Stupiscono l’estrema superficialità, l’irresponsabilità educativa e la demagogia con cui il Dirigente di un’istituzione educativa e una giornalista-megafono affrontano questioni di tale spessore antropologico.
Certo, è lo spirito del tempo! E’ così vero che la KJG – Katholische Jugend Gemeinschaft, la Comunità della Gioventù Cattolica tedesca – ha sostenuto che “ la rappresentazione di un Dio maschio e bianco rende più difficile l’accesso di molti giovani alla fede”. Pare che un Di*, possibilmente a colori – un Diə arcobaleno – sarebbe più fascinoso. Con ciò siamo passati di slancio dalla teologia apofatica di Meister Eckart all’antropologia femminista di Judith Butler: Dio è di genere fluido. Non essendo corpo, gli riesce facile. Ma per l’essere umano la cosa è più complicata. Perché il corpo non è un accidente/incidente della storia della specie. Il corpo è l’Io vivente e l’Io vivente è corpo. Non è il  “Körper” fisico, è il “Leib”, psichicamente vivente, Bios autocosciente, fisicamente determinato. La Vita è sbocciata dalla terra e per  crescere ci ha divisi in maschio e femmina. La partenogenesi e l’ermafroditismo non paiono essere la regola della riproduzione della vita. Magari venivano più comodi, ma forse la Vita non sarebbe andata lontano… Fattostà che “Natura sive Deus” ha seguito un’altra strada. Un Disegno intelligente? Un Caso fortunato? Un Caos calmo?
Che su quella divisione sessuale si siano costruite società e pratiche, nonché le relative culture e teorie che le giustificano, che hanno visto il maschio prevaricare brutalmente per millenni sulla femmina, è sotto gli occhi di tutti.
Ma che si possa porre fine a tali pratiche sociali e alle culture che alimentano o giustificano o non impediscono le violenze contro le donne e contro le persone LGBTQIA+, abolendo per via socio-culturale e anagrafica la differenza maschio-femmina, costitutiva fino ad ora della specie umana, appare una scorciatoia pericolosa per l’identità e la salute mentale degli individui. Il mio corpo, sessualmente caratterizzato, è la base della mia identità psichica e mentale. Così, l’espediente dell’asterisco sconta l’eterogenesi dei propri fini: proposto per garantire parità delle identità, apre la strada al loro sradicamento. Al contrario, noi stiamo laicamente con  Tertulliano: “La carne è il cardine della nostra salvezza”, contro ogni angelismo metafisico, contro ogni post-umanismo e trans-umanismo.

Ma poiché la vicenda è partita da una scuola, importa di più interrogarsi qui su che cosa una scuola possa e debba fare per favorire la pari dignità dei generi, per combattere il femminicidio e per contrastare i comportamenti violenti contro persone LGBTQIA+.
“All’inizio è la relazione”, così Martin Buber. Essa incomincia dal riconoscimento dell’altro come me stesso: ama il tuo prossimo come te stesso. Il riconoscimento non è la fotografia statica dell’altro, né un selfie a due, neppure un video: è una relazione vivente. Ora, la relazione tra gli “homo sapiens” accade nel linguaggio. Non tutta e sempre, s’intende. Basti ricordare Piero Sraffa che sfida Ludwig Wittgenstein a esprimere in lingua il noto gesto napoletano del “me ne frego”. In ogni caso, il linguaggio-relazione degli “homo sapiens” italiani è la Lingua italiana.
Una scuola che voglia educare al riconoscimento dell’altro deve fornire la pienezza espressiva della lingua. L’ ”Italiano inclusivo”, che qualcuno propone per superare “le discriminazioni di genere”, prima che di asterischi è fatto di lessico, cioè del numero di parole usate. Una ricerca di alcuni anni fa, condotta da Tullio De Mauro, segnalava che i nostri ragazzi non usano più di 800 parole sulle 6.500 del vocabolario di base quotidiano e sulle 47.000 utilizzate da individui con un’istruzione medio-alta.
Essi soffrono di una straordinaria povertà lessicale-cognitiva, cui rimediano malamente con gli emoticon del linguaggio non verbale. I quali, mentre esprimono un’emozione, la pietrificano.
Se, poi, dai sostantivi passiamo agli aggettivi, essi mancano, semplicemente: i discorsi e gli scritti presentano un mondo “senza qualità”. E se verifichiamo l’uso dei tempi e dei modi dei verbi, si è costretti a constatare che l’Indicativo sta largamente soppiantando il congiuntivo e il condizionale, che sono la modalità del possibile/impossibile e del desiderabile/indesiderabile, cioè delle sfumature e dei meandri della psiche. E se passiamo alla logica del periodo, alla consecutio temporum?… Sta scomparendo la logica, perché i significati non sono espressi, esplorati e vissuti per i loro legami intrinseci, in primo luogo per quelli definiti dalla rete delle dieci categorie di Aristotele. E per quanto si possono celebrare le logiche non-binarie o la “fuzzy logic”, il pensare umano e le parole per dirlo è prigioniero del principio di non-contraddizione: “È impossibile che la stessa cosa, ad un tempo, appartenga e non appartenga a una medesima cosa, secondo lo stesso rispetto”.
Questa “prigionia” è la condizione del costituirsi del significato e del linguaggio per dirlo, è la sua libertà.
I pensieri, i sentimenti e le emozioni implodono nella rabbia e nella depressione, perché non trovano i canali espressivi di uscita verso l’altro. E quando esplodono, ciò accade attraverso gesti violenti. Così il Kollettivo – la K è più maschile della C  – Studenti Autorganizzati del Liceo Cavour (ma perché non Student* Autorganizzat*?!), invece di pensare/parlare con gli studenti del Blocco studentesco, che volantinavano contro l’adozione dell’asterisco, li ha presi a pugni in faccia. Una scorciatoia espressiva – si fa per dire – che fa il pari con quella grafica dell’asterisco.
In questo deserto linguistico di significati prevale la “langue de bois” del presente, quella dei Talk-show, dei Tweet, degli Instagram e di chi peggio ne mette: un presente tutto estensione, niente intensione.
Qui toccherebbe passare alla caduta della Storia e alla Geografia nelle scuole… Lasciamo perdere!

Non credo che i ragazzi si adagino naturalmente sul presente. Anzi… Ma, con tutta evidenza, c’è chi ce li vuole tenere sdraiati.
I sacerdoti novelli del “conformismo dell’anticonformismo”, i neo-giacobini dell’asterisco e della fluidità universale, che abitano al Liceo Cavour e non solo, dovrebbero forse interrogarsi sulla propria capacità di  educare: “e-ducere” vuol dire “portare fuori” i ragazzi, verso il mondo e verso  l’altro. E i giornalisti dovrebbero fare inchieste, non-conformiste e non prone, sulla capacità delle scuole di educare , invece di elevare svenevoli peana a ciò che loro ritengono politicamente corretto, ma che è così drammaticamente  suicida sul piano culturale e civile.

 

(Editoriale da santalessandro.org, sabato 27 novembre 2021)

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