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Podemos, il PD e l’incendio in corso

Claudio Alberti lunedì 21 Dicembre 2015
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Podemos, il PD e l'incendio in corsoLe reazioni alle elezioni spagnole sono state quanto di più prevedibile si potesse immaginare, nel fronte democratico. Puntuali, come alle elezioni francesi di qualche settimana fa, e a quelle inglesi di qualche mese fa, sono emersi quelli che imputavano la sconfitta dei socialisti al non essere stati abbastanza “di sinistra”.
Come, tra l’altro, la carenza di politiche de sinistra possa spiegare i successi tanto di madame Le Pen, quanto del prof fricchettone di Podemos, resta una bizzarria logica che possono spiegare più gli esperti di neuroscienze (a patto che siano tanto bravi) che gli appassionati di politica. Anche perché far passare uno come Hollande per un pericoloso neoliberista è un po’ come far passare mia nonna per una celebrata olimpionica di salto con l’asta.
L’impressione, guardando con un po’ di buona volontà in più, invece, è che per quanti sforzi potessero fare i “compagni” gallici o di terra iberica, avrebbero sempre trovato, forte e convinta più che mai, una consistente parte di elettorato che gli osservatori chiamano “antisistema”, e che, per capirci, chiameremo così anche noi. L’avrebbero trovata perché c’è, ed è una parte ineliminabile delle nostre società. Una massa di persone, convinte di avere in tasca la verità e dunque contrapposte a chi crede nel pluralismo; che si aspettano tutto dalla politica (senza perdere niente in cambio, beninteso) e dunque contrapposte a chi crede che in una società complessa la politica sia l’arte del possibile, e che nell’impossibile non si celino necessariamente inciuci o corruzione; che da esseri atomizzati non riescono a sentirsi parte di organizzazioni più grandi, e dunque contrapposte a chi crede che i partiti possano essere attori della scena politica e tra gli autori di classe dirigente; che per questo propugnano un mandato vincolato e dunque sono contro chi crede che nella poca leggibilità dei processi decisionali di una democrazia il mandato libero sia l’unico possibile. Strizzare l’occhio a queste tesi (che, quando avremo voglia di smettere di raccontarci balle, dovremo riconoscere come maggioritarie nell’elettorato dei movimenti antisistema) non vorrebbe dire essere più socialdemocratici, ma rinnegare decenni di democrazia rappresentativa. La questione, perciò, non si porrebbe neanche, nel migliore dei mondi possibili. Resta da capire cosa fare invece, addentrandosi in una sana pragmatica della reazione di sistema. Sana perché liberata dalle infinite sociologie su come tali movimenti si siano formati: ne abbiamo lette, ne abbiamo capito le cause e le ragioni, adesso basta. Se in tutta Europa il “primo partito”, quando va bene, è quello dell’astensione, o, quando va male, è la somma di quelli antipolitici, vuol dire che la casa democratica europea va a fuoco, e se devi tirare fuori qualcuno da un incendio non è il caso di perdere tempo a capire cosa abbia scatenato l’incendio o a convincere quel qualcuno a uscire da solo: ogni buon pompiere ti prende e ti porta via volente o nolente.
Da buoni, pragmatici pompieri, procediamo. Di fronte all’emersione del cleavage fondamentale del nostro tempo, sistema/antisistema, non resta che essere “sistema”, se esserlo vuol dire agire responsabilmente per il governo della collettività. Stante questa scelta obbligata, mi pare di capire che il sistema può reagire agli antisistema in due modi: quando “fa sistema” (il gioco di parole è puramente volontario) o quando uno dei suoi componenti diventa “il” sistema stesso. Del primo caso fanno parte il patto repubblicano francese che ha bloccato il Front National e i governi di grande coalizione che, dalla Germania all’Italia, sono ormai più un filo conduttore che uno stato eccezionale. Le forze di sistema, qui, ammettono di esserlo unendosi in alleanze che, giudicando secondo il tradizionale cleavage destra/sinistra sarebbero spurie. In tutti i casi è la forza di sistema di centrosinistra che si batte per riuscire a modificare il sistema dall’interno. Il secondo caso non ha ancora esempi palesi, tranne uno: il Partito Democratico italiano, capace di raggiungere, in una competizione nazionale, il 40% dei consensi, grazie ad un mix inedito di capacità riformatrice dall’interno del sistema e di una forte carica innovativa nella costruzione del messaggio politico. Chiaro che un tale risultato giustificò analisi per cui il PD, da parte del sistema, poteva diventare così “il” sistema stesso. Se spaventa la conseguente definizione di “Partito della Nazione”, si può ricorrere al giro di parole più articolato che Matteo Renzi ha usato alla Leopolda: “Non siamo il Partito della Nazione, ma il Partito della Ragione”.
Dopo le elezioni francesi e spagnole abbiamo un vantaggio e uno svantaggio: il vantaggio è che è definitivamente chiaro che la linea di demarcazione del nostro tempo è quella sistema/antisistema, lo svantaggio è la consapevolezza che il sistema è stretto tra le due opzioni di fare sistema o dell’essere sistema di una sua parte. Chi, dunque, dovesse decidere di rifiutare la prospettiva di un PD che si fa sistema, semplicemente deciderebbe di consegnare il Paese alle due prospettive che restano: il patto repubblicano che diventerebbe stabile e duraturo, o l’antisistema che si farebbe nefasto governo. Finché reggerà il sistema, ognuno sarà libero di scegliere.