di Michele Salvati
Nota introduttiva: si tratta di spunti sintetici, talora di una brevità caricaturale. Ma molti sono argomentabili in modo ampio, documentato e largamente condivisibile. Alcuni sono più controversi e su di essi si fondano i conflitti nel partito nell’attuale fase precongressuale. L’attenzione di queste Premesse è concentrata sul nostro paese e la sua situazione politica: i vincoli che pone la situazione internazionale non sono oggetto di analisi, soprattutto perché l’Italia può fare ben poco contro di essi. Potrebbe fare molto di più l’Europa, se fosse unita e in essa prevalesse una coerente difesa del modello sociale europeo: sull’Unione queste Premesse non lasciano dubbi (punto 22°), ma l’argomento, con l’avvicinarsi delle elezioni, richiede una trattazione apposita.
I
La coalizione innaturale (…ad excludendum) tra Dc e Psi è stata per trent’anni, dai primi anni 60 fino all’inizio dei 90, l’asse dei governi italiani, governi condannati all’inefficienza e alla “vista corta”, se non alla corruzione: l’adattamento dell’economia e delle istituzioni del paese ai problemi che si ponevano dopo la fase della ricostruzione e del miracolo economico – una fase affrontata con successo dalle coalizioni centriste dell’immediato dopoguerra – non venne mai intrapreso in modo sufficiente ed efficiente.
L’inefficienza e la vista corta nascevano in buona misura dal conflitto endemico tra le due principali élite politiche che partecipavano al governo, democristiana e socialista, con l’obiettivo di prevalere l’una sull’altra: a tale scopo esse assecondavano – per ragioni di convenienza elettorale e sotto la pressione del Pci, il grande terzo escluso – domande cui nell’interesse del paese avrebbero dovuto resistere. Di qui una politica macroeconomica inadeguata (inflazione e poi disavanzi: è nella Prima repubblica che si forma il grande debito pubblico italiano) e una scarsa attenzione per le riforme istituzionali ed economiche che avrebbero dovuto attrezzare l’Italia alla diversa fase del regime capitalistico, da keynesiano a neoliberale, nella quale si entrò nei primi anni 80. Questa storia è stata raccontata tante volte, ma bisogna sempre averla presente.
Insisto su Tangentopoli non perché creda che il populismo all’italiana tragga origine da questa crisi politica recente: esso è radicato nell’intera storia d’Italia, deve la sua origine ai movimenti estremisti che si svilupparono nella democrazia di massa successiva alla prima guerra mondiale – al fascismo, soprattutto – e in questo dopoguerra era presente in (quasi) tutti i partiti. Quando questi e il loro modus vivendi (la c.d. Prima Repubblica) entrarono in crisi, l’endemico populismo italico esplose: per fortuna non più come rifiuto della democrazia – di cui anzi gli attuali populisti si fanno per ora paladini – ma come negazione del pluralismo e dei caratteri liberali della democrazia.
Durante la doppia recessione economica tra il 2008 e il 2013 e l’insufficiente ripresa successiva, il posto di un Centrodestra moderato e filoeuropeo (ma non liberale) è stato occupato dalla Lega di Salvini e quello di un Centrosinistra moderato e filoeuropeo (ma anch’esso non liberale, per la debolezza di questa tradizione nell’eredità cattolica e comunista) è stato occupato dai 5 Stelle. Insomma, due populismi estremisti hanno occupato il posto di due populismi moderati: in modo confuso si è riproposta la vecchia spaccatura tra Destra e Sinistra, i cui confini Renzi non è riuscito a spostare, nonostante questo fosse un suo evidente obiettivo.
Ma né il Centrodestra di Berlusconi, né il Centrosinistra di Renzi avevano detto chiaramente agli italiani, per timore di perdere voti, quanto compromessa fosse la situazione economica e istituzionale del nostro paese, e quindi lenta e piena di difficoltà sarebbe stata l’uscita dal declino prodotto dalle classi dirigenti inadeguate – di tutte, anche di quelle economiche, oltre che di quelle politiche su cui ho posto l’accento sinora – che avevano governato l’Italia dagli anni 70 ad oggi. Quando questa verità emerse in modo evidente nelle crisi finanziarie dei primi anni 90 e del 2011, governi “tecnici” strettamente legati al progetto europeo ebbero qualche spazio di manovra, subito circoscritto dai governi “politici” successivi.
Secondariamente essi hanno prodotto una caricaturale semplificazione degli obiettivi del governo. Viene fortemente criticato il vincolo europeo e sottovalutato quello, ancor più forte, dei mercati, e di conseguenza si allarga la (presunta) possibilità di politiche economiche più espansive e definite esclusivamente in termini di (presunto) interesse nazionale, ma in realtà di pura popolarità elettorale: di qui la flat tax, il reddito di cittadinanza, la riforma delle norme che assicurano l’equilibrio del sistema pensionistico. Di qui anche le iniziative unilaterali in tema di immigrazione: tutte proposte popolari, nessuna ben identificata e realizzabile.
I nodi stanno però venendo al pettine e la tattica di furia e rumore sta diventando sempre più rischiosa: le reazioni alla recente Nota di Aggiornamento al DEF (il 2,4 di deficit, rispetto allo 0,8 del DEF di aprile) ancora non danno la misura delle conseguenze che avranno sull’Europa e sui mercati, i quali probabilmente attendono il progetto di Legge di Bilancio, da presentarsi al Parlamento e alla Commissione Europea il 15 ottobre: vedremo allora, se non prima, se Europa e mercati “si faranno una ragione” delle inadempienze italiane (Salvini dixit).
Temo che al momento della verità, allo show-down, si arriverà abbastanza presto. O i partiti populisti al governo dovranno ridefinire e moderare le promesse elettorali, o si arriverà ad una crisi del debito: il problema non sono tanto le sanzioni europee, quanto il comportamento dei mercati finanziari nei confronti di un paese in cui il debito può uscire di controllo e si ostina a non riconoscere le proprie condizioni di debolezza. Per ora, a livello internazionale, sembra dominante la tattica consigliata da Churchill nei confronti del fascismo: l’asino italiano si doma alternando il bastone con la carota.
La situazione non sembra urgente a nessuno degli oppositori: si vedrà quando gli estremisti e i populisti dovranno passare dalla propaganda alla realtà. Ma la situazione è urgente perché il gioco è rischioso e non è affatto detto che essi perdano il loro consenso elettorale in caso di difficoltà: sfruttando l’argomento “non ci fanno fare le riforme che salverebbero l’Italia”, indirizzando il rancore degli italiani verso malefiche forze esterne (L’Unione Europea, i mercati finanziari), essi potrebbero condurci al disastro. E’ per questo che una prospettiva seria, una vera alternativa politica, dovrebbe essere subito in campo. E quale altro partito se non il Pd dovrebbe e forse potrebbe darla?
II
E’ la ricostruzione economica, istituzionale e morale del paese quella che dovrebbe essere proposta agli italiani, o almeno a quelli che non hanno abbandonato ogni speranza che l’Italia possa correggere le inefficienze e le ingiustizie che l’attraversano, possa tornare a crescere, possa essere rispettata e non irrisa/temuta in Europa e nel mondo.
E questo dovrebbe essere l’obiettivo centrale di una nuova fase politica, reso necessario dalla gravità della crisi, da un declino che gli elettori, il ceto politico e non pochi intellettuali e commentatori si rifiutano di comprendere nelle sue cause reali, nella mitica fiducia che un ceto politico radicalmente nuovo riesca nel difficile compito che il vecchio non è riuscito ad assolvere. Anche se la sua incompetenza è palese (dov’è uno straccio di analisi del declino?) e i suoi caratteri di estremismo populista altrettanto evidenti: è la “piazza pulita” di Tangentopoli, il “se vaian todos” dei populisti sudamericani.
Il partito democratico deve restare un partito di sinistra, una versione democratica, liberale e riformista della sinistra. Una versione adatta a sopravvivere anche nelle condizioni poco felici che la globalizzazione, il neoliberismo, le reazioni nazionalistiche e illiberali, le inefficienze del sistema Italia stanno producendo.
Cruciale sarebbe trovare un nuovo segretario, che impersoni al meglio gli obiettivi di questa fase. Nell’impossibilità di adattare l’intero partito in tempi brevi alla difficile situazione in cui si trova, non vedo altra possibilità al fine di segnalare una cesura col passato e una possibilità di rinascita.
Non funziona nel partito, dove è rimasta in vita una corrente tradizionalista ostile, oltre che allo stile di leadership, ai contenuti politici e culturali del progetto renziano. E non funziona nel paese, dove la barriera tra destra e sinistra non è stata scalfita ed è riapparsa in forme estreme e confuse. In questo momento, da parte dei renziani, mi sembra sia in corso una ricerca per trovare un leader adeguato della loro corrente, da contrapporre nel congresso a Nicola Zingaretti, visto come candidato di una coalizione di correnti antirenziane.
Mi sembra però più opportuno evitare di far nomi in questa fase del dibattito precongressuale: i nomi verranno e di recente se n’è aggiunto un altro di grande rilievo, Marco Minniti.
L’importante è che queste candidature rappresentino una discontinuità con le segreterie precedenti, abbiano la possibilità di riscuotere un ampio consenso nella base del partito e nell’elettorato potenziale, e non siano viste come semplici espressioni delle due grandi correnti, renziana e antirenziana, nel cui conflitto il partito si è logorato nel passato e rischia di implodere in futuro.
III
Questo vale anche per chi ritiene, come Calenda, che la fase del conflitto tra destra e sinistra sia finita, che il partito debba cambiar nome per fissarsi sull’obiettivo di apertura contro chiusura, competenza contro incompetenza, europeismo contro nazionalismo, ricostruzione nazionale contro nazionalismo estremista.
Di questo ho già detto (punti 6-10), e ora mi limito a ricordare che gli avversari storici del Centrosinistra sembrano muoversi su una pista di assorbimento o attenuazione delle loro divisioni, con il rischio che alle prossime elezioni si presenti un Centrodestra sostanzialmente unito sotto una guida salviniana nel frattempo ammorbidita, e un Centrosinistra diviso, diviso al suo interno e diviso sul tema dei rapporti con i 5 Stelle (il voto su Orban del 12 settembre scorso nel Parlamento Europeo, in cui Forza Italia -senza alcuna necessità – è schierata con Salvini e contro la quasi totalità del PPE è probabilmente un indizio che Berlusconi si è rassegnato a cedere a Salvini la leadership del Centrodestra).
Se questa improbabile alleanza si dovesse fare, il leader della coalizione di Centrosinistra (?!) sarebbe un esponente dei 5 Stelle, non certo del PD, proprio come il leader di una eventuale alleanza di Centrodestra sarebbe Salvini e non un esponente di Forza Italia. Questo dicono i numeri e confermano le evidenti simpatie per un più stretto rapporto con i 5 Stelle manifestate dai piccoli partiti di sinistra estrema o anche da esponenti del Pd, di cui il più noto è Emiliano.
Realismo e competenza devono essere doti riconosciute al quadro dirigente del partito, almeno quanto lo è l’obiettivo primario di un partito di sinistra, l’attenuazione delle diseguaglianze nelle condizioni di vita, provocate dalla fase di globalizzazione a predominio neoliberistico e dalle inefficienze e ingiustizie che sono proprie del nostro paese e non dipendono dalla situazione internazionale.
Buona parte dei migliori tecnici e intellettuali italiani condividono posizioni di sinistra liberale e non dovrebbe essere impossibile per il partito costruire un supporto culturale di elevata e riconosciuta competenza.
C’è del vero in questa osservazione, ma c’è anche un problema. Fino a dove si può spingere l’empatia? Fino a far proprie posizioni di chiusura xenofoba da tempo latenti nei ceti popolari o altri pregiudizi e atteggiamenti diffusi ma politicamente inaccettabili? Fino a promettere misure estreme ed illusorie? Questo è soprattutto vero quando il partito è al governo e dunque è parte dei “loro”, della classe dirigente del paese. Ma è vero anche quando il partito è all’opposizione: al di là di evidenti obiezioni di principio, movimenti estremisti e populisti sono difficilmente sfidabili in termini di popolarità e immediatezza, di spontanea “empatia”, soprattutto sul tema dell’immigrazione.
E’ allora destinato, il Pd, a restare un partito diviso, afflitto da conflitti interni in cui è difficile separare le ragioni ideologiche da quelle personali, e dunque destinato alla sconfitta? L’unità necessaria non è però assenza di dibattito interno e ciò è possibile anche in presenza di forti dissensi, se si danno tre condizioni.
La prima è che i dissensi siano giustificati nel modo più argomentato possibile: dunque ben vengano diverse analisi sulle ragioni della sconfitta, critiche e autocritiche approfondite, perché è sulla base di queste che i membri del partito possono farsi un’idea sulle candidature che si presenteranno. E qui, per ragioni ovvie, l’onere e l’impegno maggiore spetta ai renziani, che di fatto hanno governato per gran parte della legislatura e sinora hanno prodotto documenti che si limitano a rielaborare i temi della propaganda delle elezioni del marzo scorso.
La seconda, altrettanto importante, è che a tutti i candidati sia riconosciuta la stessa legittimità a rappresentare la linea del partito in caso di prevalenza nel congresso: detto altrimenti, un sufficiente spirito di partito come casa comune, come ancora resiste (per quanto?) nel Labour o nella SPD (e qui, lo dico subito, non mi convince l’idea che il capo del governo sconfitto debba necessariamente ritirarsi da un confronto nel partito: non siamo in un contesto culturale e istituzionale anglosassone).
La terza, dopo che il congresso si è concluso, è un limite fermo ad esternazioni dannose di dissenso aperto.
(a) Un Europeismo attivo, fermo e leale, anche se critico dei conflitti e della conseguente inerzia che ora ostacolano l’azione dell’Unione e dell’Eurozona. E dunque un’alleanza vigile con i paesi e i partiti europei che perseguono obiettivi simili a quelli perseguiti dal Partito democratico. Vigile e non ingenua, consapevole che anche i più ferventi europeisti sono inevitabilmente soggetti al richiamo di interessi puramente nazionali.
(b) Chiusura netta al Movimento 5 Stelle come organizzazione politica: le attuali posizioni del Movimento sulla democrazia, sulla situazione economica, sull’Europa e sul Mezzogiorno rivelano una distanza siderale dagli obiettivi che un partito di sinistra liberale deve proporsi in almeno quattro ambiti importanti. Sull’economia, sulla democrazia e sull’Europa si è già sviluppato, anche nel Pd, un dibattito critico nei confronti dei 5 Stelle…
Una critica seria non si è sviluppata soprattutto perché è carente, nei renziani e in tutto il Pd, una vera autocritica nei confronti delle politiche meridionaliste che hanno fatto, e soprattutto non fatto: com’è possibile criticare gli altri se non si dispone di un’alternativa e di un partito in grado di portarla avanti?
Lo stesso compito è assai più difficile quando obiettivi così popolari non sono realistici, un po’ perché sono già stati raggiunti, seppure in modo incompleto e inefficiente, e soprattutto perché la situazione internazionale ed interna non consente altro, a livello nazionale, che un’opera meno esaltante di rammendi su mille fronti, un’opera di geriatria economica e istituzionale. Anche se presentata, anzi, proprio se presentata, come un grande disegno di ricostruzione nazionale.
Se vuole evitare il destino di una democrazia illiberale (o peggio) – alcuni paesi europei ne sono già vittime – il Partito democratico non può concedersi il lusso di frammentarsi ulteriormente, o di proseguire nel conflitto interno che l’ha sinora logorato.
(articolo pubblicato su Il Foglio del 15-10-2018)
Docente di Economia Politica all’Università Statale di Milano, nella Facoltà di Scienze Politiche. Ha scritto e scrive per quotidiani (‘Corriere della Sera’, ‘Repubblica’, ‘Unità’, ‘Il Sole 24 Ore’, ‘Il Foglio’) e riviste (‘Stato e Mercato’, ‘Il Mulino’).
Deputato dei Ds-L’Ulivo nella XIII Legislatura. Tra i più importanti teorici del Partito democratico, ha dedicato all’argomento due libri: “Il partito democratico. Alle origini di un’idea politica” (2003) e “Il partito democratico per la rivoluzione liberale” (2007)