di Salvatore Curreri
Quando uno Stato può dirsi laico? Certo, quando non c’è una religione di Stato. Ma non basta, e le reazioni di segno opposto alla nota verbale della Santa Sede sul ddl Zan lo dimostra. C’è chi, soprattutto tra i non credenti, la considera un’inaccettabile ingerenza perché considera la laicità innanzi tutto come separazione istituzionale tra Stato e Chiese. E chi, all’opposto, soprattutto tra i credenti, l’ha apprezzata perché considera la laicità soprattutto come libertà d’esercizio del magistero pastorale.
In realtà, benché la laicità presupponga e richieda ovunque la distinzione tra dimensione temporale e dimensione spirituale, il modo in cui si realizza varia storicamente nel tempo e nello spazio. Così abbiamo Stati laici che s’ingeriscono negli affari della Chiesa nazionale (giurisdizionalismo) fino al punto che il Sovrano ne è a capo (Gran Bretagna); Stati che considerano la religione il collante sociale che fonda la loro identità (Godbless America…); Stati che considerano la laicità in senso negativo (per sottrazione) come assoluta neutralità delle istituzioni pubbliche nei confronti del fenomeno religioso, visto come fattore di potenziale divisione sociale (Francia, dove ad esempio per questo motivo è vietata l’ostensione di simboli religiosi). Stati, infine – come il nostro – che intendono la laicità in senso inclusivo (per addizione) perché considerano la religione non solo come un’esperienza spirituale privata, ma anche un fattore di rilievo sociale al quale lo Stato deve guardare con favore perché espressione della personalità di ciascuno (Corte cost., sentenza n. 334/1996). Per questo, l’art. 19 della nostra Costituzione precisa che “tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa” non solo “in qualsiasi forma, individuale o associata” ma anche “di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume”. E per questo lo Stato regola la dimensione pubblica del fenomeno religioso, stipulando accordi bilaterali con la Chiesa cattolica (Concordato) e con le confessioni acattoliche (intese) per soddisfare loro esigenze specifiche, concedere loro particolari vantaggi o imporre particolari limiti, dare rilievo giuridico a loro atti (come nel caso del matrimonio), disciplinare infine materie di comune interesse.
Bene dunque ha fatto il Presidente del Consiglio Draghi in Parlamento a non limitarsi a ribadire l’ovvia laicità del nostro Stato, aggiungendo piuttosto che essa non equivale a “indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni” ma si traduce nella “garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale” (Corte costituzionale, sentenza n. 203/1989). Questo spiega perché, nel nostro Paese, è sancito, ad esempio, il diritto d’obiezione di coscienza per motivi religiosi; il diritto all’assistenza religiosa nei luoghi pubblici (i ricoverati negli ospedali, i detenuti nelle carceri, i militari nelle caserme, gli studenti che vogliono frequentare l’ora di religione); il diritto di non lavorare per onorare determinate festività religiose; i finanziamenti pubblici per costruire edifici destinati al culto.
Alla luce di concezione inclusiva, in cui Stato e Chiesa cattolica sono chiamati nei loro rapporti “alla reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese” (art. 1 Concordato), la suddetta nota verbale esprime legittimamente le preoccupazioni della Santa Sede sulla possibilità che il ddl Zan incida negativamente sulla libertà della Chiesa cattolica di svolgere la sua missione pastorale e di quella dei fedeli di esercitare i loro diritti politici (riunione, associazione, espressione). Libertà garantite dal Concordato (v. rispettivamente artt. 2.1 e 2.3) e per questo che potevano essere oggetto d’intervento solo da parte della Santa Sede e non della Conferenza Episcopale Italiana, alla quale l’art. 14.2 del Concordato lascia solo la regolazione tramite intese di “ulteriori materie”. Ma, ancor prima, libertà garantite dalla Costituzione (artt. 17-21) per cui, sotto questo profilo, il richiamo al Concordato non aggiunge nulla agli argomenti a sostegno della pretesa natura liberticida del ddl Zan (dovendosi ovviamente escludere che la Chiesa si sia mossa per esservi esentata, rivendicando la propria libertà ad essere omofoba…).
Ciò chiarito, continuo a ritenere infondate le preoccupazioni espresse sul ddl Zan. Così come contro il referendum sul Trattato costituzionale dell’UE i francesi nel 2004 furono terrorizzati dall’arrivo degli idraulici polacchi che gli avrebbero tolto il posto di lavoro, ora l’argomento principe della propaganda contro il ddl Zan è quella del povero prete che verrebbe arrestato dai gendarmi (con i pennacchi, con i pennacchi…) al termine della sua omelia a favore del matrimonio solo tra uomo e donna, oppure contro le adozioni delle coppie omosessuali o la maternità surrogata.
Argomento d’indubbia presa ma giuridicamente infondato. Come ho già cercato di argomentare su queste colonne (v. il mio intervento dello scorso 15 maggio) ad essere colpito è soltanto il pensiero che istiga a compiere atti discriminatori e violenti. Si continua ad obiettare: come si fa a stabilirlo? Non si lascerebbe così troppa discrezionalità al magistrato di turno, magari anticlericale? E a nulla varrebbe scrivere nella proposta di legge (art. 4) che “sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”, perché, secondo tali critici, tale articolo finirebbe per ammettere la fondatezza del pericolo segnalato (strano argomento, invero: quando non c’era tale precisazione, la si richiedeva; ora che è scritta, la si ritiene un’auto-accusa: insomma, come fai sbagli…).
Tutte queste obiezioni hanno un difetto: considerano il ddl Zan come se introducesse per la prima volta i reati contro l’eguaglianza quando invece essi già esistono. Il ddl Zan, infatti, si limita ad estendere i delitti già previsti contro l’eguaglianza, aggiungendo alle discriminazioni per motivi “razziali, etnici, nazionali o religiosi” quelle fondate su sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere o disabilità. Quanti sostengono, quindi, che si tratti di una proposta di legge repressiva della libertà d’espressione e lesiva dei principi di tassatività e determinatezza della fattispecie penale, a causa della fumosità dei concetti di “istigazione” e “atto discriminatorio” dovrebbero per coerenza estendere la loro accusa d’incostituzionalità all’intera legge Reale-Mancino (oggi trasfusa nell’art. 604-bis c.p.) e, dunque, temere per la loro libertà di parola anche in materia razziale, etnica, nazionale o religiosa.
Se non l’hanno mai fatto prima e non lo fanno è perché sanno che hanno contro tutta la giurisprudenza che, pronunciandosi sulle fattispecie oggi previste, ha chiarito da tempo che l’istigazione a compiere atti discriminatori è punita perché “realizza un quid pluris rispetto ad una manifestazione di opinioni, ragionamenti o convincimenti personali”. Difatti, “l’incitamento ha un contenuto fattivo di istigazione ad una condotta, quanto meno intesa come comportamento generale” (Cass., V pen. 31655/2001). Ad essere punito per tali motivi non è, dunque, la propalazione di un sentimento di generica antipatia, insofferenza o rifiuto, o le mere manifestazioni di ostile disprezzo nei confronti di una persona, tutti rientranti sotto la tutela della libertà d’espressione ex art. 21 Cost., bensì le opinioni che, per il contesto in cui vengono espresse, sono per stretta consequenzialità idonee “a determinare il concreto pericolo di comportamenti discriminatori” (Cass., III pen. 36906/2015) nei confronti di un soggetto non per quel che fa ma per quel che è da parte di chi la considera deviante dall’unico modello ritenuto ammissibile (Cass., VI pen. 33414/2020). L’istigazione esprime quindi una manifesta volontà diretta a creare in un vasto pubblico, come nel caso della diffusione ed amplificazione veicolata dai social network, il concreto pericolo del compimento di atti d’odio e di violenza fisica e morale. L’ha ricordato di recente anche la Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Beizaras e Levickas c. Lituania condannata per non aver previsto sanzioni penali nei confronti di utenti di Facebook che avevano postato auguri di morte a due omosessuali fotografati mentre si baciavano.
Forse quando si lamenta la violazione della libertà della libertà d’espressione i critici del ddl Zan farebbero bene a guardare altrove. All’Ungheria? Esatto.
(in Il Riformista, 26 giugno 2021)
Professore in Istituzioni di Diritto pubblico e coordinatore del Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza nella Facoltà di Scienze Economiche e Giuridiche – Libera Università degli Studi di Enna “Kore”