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Produttori, salari, occupazione: come sta l’economia italiana?

Enrico Morando venerdì 26 Luglio 2024
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di Enrico Morando

 

Come sta, economicamente, l’Italia? Per rispondere -secondo un’antica abitudine-, farò ricorso ai dati relativi al Prodotto e al ruolo dell’Italia, quale potenza manifatturiera, nell’economia globale; al livello dei salari e dei profitti; al livello dell’occupazione. Cioè, agli elementi più significativi dell’economia reale.

1- Cominciamo dal “peso“ dell’Italia nel mondo. I dati a cui faccio riferimento sono naturalmente quelli dell’Organizzazione mondiale per il commercio e si riferiscono al 2023: l’Italia è sesta nella graduatoria dell’export mondiale manifatturiero. Ma l’export dei Paesi Bassi, che ci precedono, è “drogato“ dai transiti nei porti di merci non prodotte in Olanda. Dunque, per capacità effettiva di produrre beni e manufatti da esportare, siamo quinti nella graduatoria globale. Ci precedono soltanto Cina, USA, Germania e Giappone. Marco Fortis ha messo in evidenza che, se escludiamo le automobili, che “pesano” per il 3% sullo scambio globale di merci, ma costituiscono più del 10% dell’export del Giappone, siamo addirittura quarti (il Giappone ha una popolazione più che doppia rispetto all’Italia). Ricordo che ancora nel 2010 eravamo, nella stessa graduatoria, dietro la Corea del sud.

Come si concilia questo insieme di dati-davvero impressionanti-, con quelli della produttività del lavoro e dei fattori, che in Italia non è cresciuta affatto o è cresciuta meno di quella degli altri paesi europei a noi paragonabili? La risposta è semplice: il dato medio del nostro paese in materia di produttività manifatturiera è basso. Ma è il risultato di due componenti che si muovono agli estremi: A-la produttività molto bassa delle 300.000 imprese con meno di 10 addetti e quella bassa delle imprese con meno di 20 addetti (37.000).B-quella alta delle 9000 imprese manifatturiere da 50 a 1999 addetti, che “fa“ i tre quarti dell’export e quella altissima delle 40 imprese con più di 2000 addetti. In quest’ultimo insieme di imprese, la produttività è più alta di quella delle corrispondenti aziende tedesche.

Cosa è accaduto, in Italia, in questi ultimi 10 anni, che sia in grado di spiegare, almeno parzialmente, queste performance del nostro export manifatturiero? La risposta è che c’è stata una riforma, industria  4. 0, che ha favorito e promosso un lungo ciclo degli investimenti, come in Italia non si vedeva da più di trent’anni. (Poiché a sinistra circola un’aria di pentimento per le scelte fondamentali compiute nel corso degli ultimi anni, ricordo che questa riforma è stata uno dei capisaldi dell’esperienza dei nostri Governi).

Dunque, il problema del nostro apparato produttivo è la bassa produttività delle imprese piccolissime e piccole, che andrebbero aiutate a crescere, invece che a rimanere piccole (penso agli effetti di un provvedimento come quello relativo al cosiddetto forfettone fiscale per le aziende che hanno un fatturato fino a 85.000 €. Introdotto dai Governi di centro sinistra per favorire attraverso agevolazioni fiscali e soprattutto semplificazioni la nascita di imprese per iniziativa di giovani, al fine di consentire loro di avere qualche anno di tranquillità in fase di decollo, questo provvedimento è stato progressivamente esteso a tutte le imprese senza alcun limite, purché rientranti nel fatturato massimo previsto: un formidabile incentivo a rimanere piccoli). Un problema ancora più grande è quello della bassa produttività totale dei fattori, un indicatore che cerca di misurare l’efficienza economica di ciò che -nel sistema produttivo- non è lavoro e non è capitale (la PA, il sistema giustizia, il sistema pubblico di istruzione, il livello della fiducia, il sistema delle aspettative, eccetera).

2- Vengo ora al tema dei salari. È un dato che non conosce smentite: nel medio-lungo periodo, il livello medio dei salari è correlato al livello medio della produttività. Questo spiega perché i salari in Italia siano così bassi, molto più bassi di quelli medi nei paesi che l’Italia supera per livello di“peso“ nell’economia globale: se la produttività media cresce poco o non cresce affatto, l’andamento dei salari tenderà ad uninformarvisi.

Tuttavia, questo non spiega tutto. Perché nelle aziende con altissima e alta produttività ed elevato o elevatissimo livello dei profitti i salari sono più bassi di quelli delle aziende comparabili negli altri paesi dell’Unione Europea?

I fattori che possono spiegare questo fenomeno sono molteplici, e non ho qui il tempo di elencarli partitamente. Tra di essi, c’è certamente quello che riguarda le caratteristiche della contrattazione tra lavoratori e imprese in Italia: poiché la contrattazione è prevalentemente nazionale, essa tende a relazionarsi con la produttività media-che abbiamo visto essere bassa. Lo Stato, per la sua parte, non aiuta a sviluppare quella di secondo livello, malgrado abbia ampi poteri per farlo (pensiamo soltanto al ruolo che può avere il fisco in questa partita). Quando lo fa-o tenta di farlo-, gli esiti non sono sempre corrispondenti alle intenzioni: penso ai buoni benzina che – per quanto mi è dato di conoscere -dominano il campo del cosiddetto Welfare aziendale, pensato per scopi di tutt’altro tipo: asili nido, risorse per la  università dei figli dei lavoratori, et similia.

Cosa bisognerebbe fare, lo sanno tutti: una buona legge sulla rappresentanza e lo sviluppo di una fase intensa e prolungata nel tempo di contrattazione di secondo livello. Inoltre, l’apertura di un capitolo sostanzialmente inesplorato in Italia: quello della partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa, dalle forme più semplici (partecipazione agli utili), a quelle più complesse (comitato di gestione), passando per forme di azionariato dei lavoratori, cioè di partecipazione alla proprietà dell’azienda.

Prevengo un’obiezione: poiché non ne hai parlato fino ad ora, consideri quindi sbagliata la battaglia per il salario minimo per legge? Al contrario, la considero sacrosanta. Ma una legge efficace in materia la si otterrà solo nel contesto di una riscossa salariale “vera“: un po’ di sano conflitto redistributivo. Se non è promosso anche dalla parte più forte del mondo del lavoro, il salario minimo rischia di restare un buon obiettivo mai raggiunto.

3- Infine, il livello dell’occupazione. I numeri sono presto descritti: l’ occupazione ha raggiunto i 23,580 milioni. È un livello record. Tutti lavori precari? No: i contratti a tempo indeterminato sono aumentati in valore assoluto e in percentuale. I contratti a termine sono un sesto della forza lavoro, come nella media dell’Unione Europea. Sono sempre troppi, in particolare quelli che si riferiscono al part-time involontario delle donne.

Questi dati assoluti nascondono due fenomeni negativi: il primo, è costituito dalla crescente divaricazione tra lavoro dequalificato e lavoro qualificato. Il secondo è quello che riguarda gli effetti del calo demografico: presto, in Italia, mancheranno 5 milioni di persone in età di lavoro.

Come si affrontano queste due difficoltà? La prima, attraverso una grande stagione di riqualificazione e formazione del lavoro povero (penso a qualcosa che si richiami allo straordinario intervento che si realizzò tra gli anni 60 e gli anni 70 con le 150 ore. Naturalmente, cambiato il moltissimo che c’è da cambiare, perché la realtà che ci circonda è lontanissima da quella stagione. Mi riferisco allo spirito dell’iniziativa e all’entusiasmo dei suoi promotori).

Sulla seconda -fermo che le politiche per la ripresa della natalità debbono prendere avvio immediatamente, ma potranno avere qualche effetto tra almeno vent’anni-, ci sono due rimedi che potrebbero avere effetto nel breve e nel medio periodo: uno straordinario aumento della partecipazione delle donne alle forze di lavoro, e una immigrazione buona e ben governata.

Sulla partecipazione femminile alle forze di lavoro continuo a pensare che una misura fiscale di forte favore per il reddito da lavoro delle donne rispetto al pari reddito di un lavoratore maschio possa costituire la molla per una presa di coscienza più generale sopra la presenza nel nostro paese, di un’immensa risorsa sottoutilizzata. Per quel che vale, più di 10 anni fa, assieme ad altri colleghi volenterosi e riprendendo una proposta di Alesina e di Andrea Ichino, abbiamo presentato un disegno di legge che avrebbe soltanto bisogno di una qualche rivisitazione ai margini.

Sull’immigrazione, c’è bisogno prima di tutto di un mutamento di approccio: poiché abbiamo bisogno di nuove forze di lavoro (anche qualificato), dobbiamo andare là, nei paesi di origine dell’immigrazione, per raccogliere le richieste di venire in Europa e in Italia e, una volta valutate le stesse, essere noi ad organizzare direttamente lo spostamento, riducendo la vergognosa tratta gestita da nuovi schiavisti.

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