di Pietro Ichino
Il neo-ministro del Lavoro Di Maio, assetato di giustizia sociale, propone il taglio della parte non guadagnata (cioè non corrispondente ai contributi versati) delle “pensioni d’oro” per aumentare le pensioni minime. Prima domanda: quale sarebbe, in concreto, il risultato di questa “operazione Robin Hood”?
Quali conseguenze dal taglio delle pensioni d’oro?
Proviamo a rispondere noi. Secondo i calcoli più attendibili degli esperti, se per “pensioni d’oro” si intendono quelle superiori a 4000 euro al mese, al netto della perdita di gettito Irpef il risultato sarebbe di poco meno di un miliardo di euro annuo. Se distribuissimo questo miliardo ai 4,9 milioni di titolari di pensioni minime, essi riceverebbero un aumento di 17 euro al mese. Poca cosa davvero.
Oltretutto, quei 4,9 milioni di pensionati al minimo, chi più chi meno, sono tutti già “sovvenzionati dallo Stato”, cioè godono di una rendita superiore ai contributi versati, che costa al contribuente circa 25 miliardi l’anno.
Sono davvero questi i poveri più meritevoli di essere sostenuti?
Donde la seconda domanda al neo-ministro: sono davvero questi i poveri più meritevoli di essere sostenuti? (La notizia dell’ultima ora, avuta da fonte interna al ministero molto attendibile, è che questa obiezione starebbe già inducendo il ministro a cambiare strada).
Lo stesso Governo cui il ministro Di Maio appartiene, peraltro, si propone di ridurre l’aliquota massima Irpef a una “flat-tax” del 20 per cento. Se si considera che l’aliquota massima oggi è al 43 per cento, la riduzione al 20 equivarrebbe mediamente, per le “pensioni d’oro”, a un regalo fiscale intorno ai 1500 euro mensili.
Come la mettiamo con la sua sete di giustizia sociale?
Qui è d’obbligo la terza domanda al ministro: come la mettiamo con la sua sete di giustizia sociale?
Poiché la sola risposta a quest’ultima domanda è: “non preoccupatevi: tanto la flat-tax non si può fare”, a questo punto un’ultima considerazione si impone. Un grande problema della nostra economia è costituito dai 500 miliardi circa di denaro liquido che gli italiani tengono sotto la mattonella, per paura degli sconquassi annunciati e di quelli imprevisti. Basterebbe che un decimo di questi risparmi venisse rimesso in circolazione perché il P.I.L. nazionale crescesse di un paio di punti e lo Stato incassasse venti miliardi in più di tasse; ma per questo occorrerebbe l’esatto contrario di un continuo annuncio di sconquassi.
Qual è l’impatto di questi annunci?
Ecco dunque la quarta domanda al ministro: secondo lui, gli annunci inconsulti lanciati dal suo Governo, sul terreno fiscale come su quello pensionistico, aumentano o riducono la propensione degli italiani a spendere i loro risparmi?
(tratto da www.pietroichino.it)
Già senatore del Partito democratico e membro della Commissione Lavoro, fa parte della presidenza di Libertàeguale. Ordinario di Diritto del lavoro all’Università statale di Milano, già dirigente sindacale della Cgil, ha diretto la Rivista italiana di diritto del lavoro e collabora con il Corriere della Sera. Twitter: @PietroIchino