di Diletta Tega
Intervento alla maratona oratoria del 27 febbraio 2024
Quattro osservazioni, tra le tante che si possono fare.
Primo. Il progetto è stato presentato con credenziali di minimalismo e di salvaguardia delle forme del parlamentarismo, ivi comprese le prerogative del Capo dello Stato. Queste credenziali non sono attendibili: i cambiamenti sono ramificati, profondi e alterano l’essenza stessa della forma di governo parlamentare, innestando su di essa elementi estranei.
Secondo. L’innesto funziona? Secondo me, no. Ci sono alcune incongruenze logiche. Ma l’incongruenza maggiore è ben più che logica: è funzionale, e riguarda il caso di dimissioni volontarie. Cosa è che, in questo passaggio, dovrebbe garantire la continuità dell’indirizzo politico, se non si procede allo scioglimento delle Camere? Due elementi, alternativi tra loro: il conferimento del nuovo incarico al Presidente dimissionario, oppure in alternativa a un parlamentare della maggioranza originaria. Ma cosa impedisce che, poniamo, un Presidente, dopo le dimissioni, si cerchi e si trovi una nuova maggioranza? O che un qualche parlamentare della maggioranza di posizione “centrista” e di inclinazioni “responsabili” si presti a presiedere un Consiglio di ministri sostenuto da una nuova maggioranza, magari con la presenza di ministri tecnici pesanti (poniamo un Draghi all’economia)? Alla fin fine, una sola cosa può prevenire questi cambiamenti di indirizzo: la coesione della maggioranza parlamentare originaria e la sua ampia indisponibilità a cambiare direzione. Se il punto centrale resta comunque la coesione della maggioranza, cosa è che aggiunge, di davvero decisivo, il progetto di riforma? Mi pare il colpo di coda del parlamentarismo: che, per così dire, in questo modello ibrido, finisce per essere, nei momenti decisivi, la parte qualificante dello strano incrocio.
Terzo. C’erano alternative? Certo che c’erano, che ci sono. Su queste alternative andrebbe cercata una larga intesa politica, la quale eviti soluzioni troppo creative, poco sperimentate e soggette al rischio dell’eterogenesi dei fini o comunque di esiti diversi da quelli previsti. C’è il modello secco del neo-parlamentarismo, sperimentato in Regioni e Comuni. Però qui dico brevemente che io non credo che i modelli istituzionali – di forma di governo e di sistema elettorale – che funzionano sul territorio, ammesso che davvero funzionino, siano per ciò solo riproducibili al centro. Troppo diverse, e diversamente delicate, sono le responsabilità e le funzioni dello Stato. C’è poi il modello tedesco, in un certo senso il vero archetipo del parlamentarismo razionalizzato.
Quarto. La riforma è di impatto grande e capillare, ma ha comunque delle vere e proprie lacune.
Alcune potrebbero e probabilmente dovrebbero essere risolte nell’attuazione legislativa. Altre, però, devono essere gestite a livello costituzionale. Un solo esempio: il quorum per l’elezione del Presidente della Repubblica, in un modello che intende cristallizzare la regola elettorale del premio di maggioranza. Insistere su contrappesi di questo tipo dovrebbe essere la naturale contropartita politica della disponibilità delle opposizioni a ragionare su possibili scenari di riforma condivisa.
Docente di Diritto Costituzionale nell’Università di Bologna. Visiting Professor University of Antwerp Law Faculty, dall’a.a. 2020/2021. Fa parte del Comitato di Direzione della Rivista Quaderni costituzionali ed è co-presidente di ICON-s Italia. Collabora con la Scuola Superiore della Magistratura. È stata assistente di studio del giudice costituzionale Cartabia; Emile Noël Research Fellow at NYU School of Law; Visiting Fellow at the School of Transnational Government, Istituto universitario europeo; Italian legal junior expert per l’Agenzia europea dei diritti fondamentali (FRA). I più recenti interessi di ricerca riguardano: la giustizia costituzionale; la protezione dei diritti fondamentali in Europa; il cd. global constitutionalism. Ha pubblicato due libri: I diritti in crisi, Milano 2012; La Corte nel contesto, Bologna 2020.