Lo hanno ben spiegato ed argomentato i classici. Lo si insegna alle prime battute di qualsiasi corso di macroeconomia. Lo si può percepire attraverso l’esperienza semplicemente andando a fare la spesa al mercato. Quando i prezzi dei beni diminuiscono significa che, di fatto, è la domanda di beni e consumi che si riduce. Una riduzione che si ripercuote sulle imprese che producono quei beni e quei servizi e che, non trovando mercato per i propri prodotti, sono costrette a ridurne la produzione, e, di conseguenza a licenziare personale riducendo così l’occupazione. Ma la riduzione dell’occupazione porta con sé un’ulteriore diminuzione delle disponibilità per l’acquisto di beni e servizi, e dunque, in una drammatica spirale negativa, ancora riduzione della domanda e così via fino a quando non interviene, dall’esterno qualcosa o qualcuno che blocchi il micidiale meccanismo che altrimenti andrebbe avanti ammazzando definitivamente l’economia. Quel devastante meccanismo si chiama deflazione ed, oggi, è il principale male dell’economia.
Anche se la deflazione rappresenta un pericolo strisciante già da diversi mesi, il quadro che emerge dalle informazioni più recenti non può che risultare ancora più preoccupante in prospettiva. Questo perché i dati più recenti aggiornati allo scorso mese di febbraio mostrano sia per l’area euro che per l’Italia una variazione annuale dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo negativa e pari a -0,2%. Anche se un contributo notevole a tale risultato deriva da una specifica e particolare causa, ossia dal ridimensionamento del prezzo relativo alla componente energetica (in particolare del petrolio sceso in un anno da 60 dollari per barile a poco più di 30 dollari per barile), ciò che allarma è che tale contesto deflattivo si stia materializzando insieme ad una possibile timida ripresa dell’economia e che proprio il perdurare di questa situazione di stagnazione dei prezzi potrebbe compromettere sul nascere il processo di ripartenza dei consumi e degli investimenti.
Un pericolo, questo, di cui sembrano essere chiaramente consapevoli a Francoforte nella sede della Banca Centrale Europea dove appare sempre più evidente come il confronto tra falchi e colombe sulla predisposizione ed attuazione di misure espansive di politica monetaria veda sempre di più aumentare il consenso verso i secondi, un consenso dettato dalla realtà dei fatti e da analoghe situazioni vissute da altre economie come quella giapponese, dove allo scoppio della bolla immobiliare alla fine degli anni ’80 ha fatto seguito un periodo di stagnazione e deflazione le cui conseguenze sono ancora oggi tangibili e cha ha portato gli economisti a parlare di “decennio perduto”.
Uno spettro che rischia di materializzarsi e prendere sempre più corpo anche all’interno dell’area euro dove sette anni sono già stati persi per colpa della crisi economica e finanziaria (con il Pil italiano che, ad esempio, in termini reali è oggi uguale a quello del 2000) e dove si rischia per gli effetti perversi della deflazione di rimanere in uno stato di stagnazione alternato a una bassa crescita dell’economia, dell’ordine di decimi di punto percentuale, e dell’attività produttiva.
Il nostro Paese, inoltre, corre maggiori rischi in un contesto quale quello attuale per l’elevata incidenza del debito pubblico sul prodotto interno lordo. Questo perché politiche di contenimento del debito associate ad una crescita dei prezzi (e quindi del deflatore del Pil) portano più facilmente ad una progressiva riduzione del rapporto debito su Pil, circostanza che, al contrario, diventa difficilmente sostenibile di fronte alle continue richieste di contenimento di tale parametro come più volte raccomandato dalla Commissione Europea. Una situazione ben chiara a diversi esponenti del governo italiano che per questa ragione hanno già sottolineato in diverse occasioni i pericoli connessi ad una dinamica negativa dei prezzi.
Proprio perché l’attuale contesto congiunturale risulta essere eccezionale per l’intreccio di una serie di cause diverse (prezzo del petrolio basso, aspettative di crescita contenute, incertezza che ritarda le decisioni di investimento da parte delle imprese e di acquisto da parte delle famiglie) è necessario che gli strumenti adottati siano tali da risultare convincenti ed efficaci innescando un processo virtuoso di domanda all’interno del sistema economico. La ripresa della domanda è essenziale anche per permettere alle banche centrali di poter nuovamente praticare una politica di rialzo dei tassi che ora si trovano per quanto riguarda i depositi delle banche presso la Bce su valori negativi (proprio con lo scopo di incentivare il credito).
Tutto ciò rappresenta una situazione nuova per le banche centrali, da sempre impegnate a contrastare i pericoli derivanti dall’inflazione (pericoli lontani nel caso europeo dove il target della Bce è una crescita media annua dei prezzi al consumo del 2%) e che adesso si trovano costrette ad agire in maniera contraria rispetto al passato. Combattere con tutti i mezzi la deflazione è il passo necessario per non lasciarsi sfuggire quelle deboli possibilità di crescita che stanno emergendo e che se saranno perdute rischiano di avere ripercussioni negative in Europa non solo sotto il profilo economico, e conseguentemente sociale, ma anche sotto quello della coesione tra i paesi dell’area euro, che rappresentano un mercato unico ma alquanto fragile, e questa sarebbe senza dubbio la sconfitta e la perdita più grande.