di Umberto Ranieri
Quello che si chiama ”berlusconismo” non era il frutto di qualche oscura degenerazione morale che aveva colpito una parte del popolo italiano. Chi lo sostenne ignorava una lezione di Gramsci: vale sempre la pena di prendere l’avversario dal suo lato più forte, di non svalutarne le capacità e il carattere. Nascevano il Berlusconi politico e il suo movimento dalle viscere della crisi in cui versava l’Italia agli inizi degli anni Novanta, allorché si dissolveva ciò che c’era prima di solido e di strutturato e non compariva ancora nulla in grado di sostituirlo.
Il “berlusconismo” è stato un fenomeno storico politico, il suo affermarsi (e il suo declino) lo si spiega riflettendo su alcune cause di fondo. Si realizza negli anni in cui si produce una rottura “nel sistema di valori riconosciuti, condivisi e accettati che avevano retto la prima Repubblica”. In parte per i mutamenti che si erano prodotti nella struttura del mondo con la crisi e il crollo del comunismo; in parte perché molti degli elementi costitutivi di quel sistema non reggevano più. Il venir meno di una sinistra culturalmente capace di fare i conti dopo l’89 con la nuova geografia sociale del Paese, con l’irrompere di una nuova classe media, con le domande di modernizzazione favorì la conquista della scena al movimento di Berlusconi. Il Cavaliere comparve all’orizzonte per riempire il vuoto che si era determinato al centro della società italiana con il crollo dei partiti/pilastri della prima Repubblica. Indiscutibile in quel frangente l’abilità politica dell’operazione: ricondurre in una logica di governo due forze che per ragioni storiche e politiche diverse erano fuori del quadro costituzionale, la destra che proveniva dal Msi e la “durezza barbarica” della Lega di Bossi. Fu un momento chiave della storia politica del Paese: prendeva corpo, tra alterne vicende e contraddizioni, lo schieramento alternativo alla sinistra, fattore essenziale per l’avvio di una democrazia fondata sull’alternanza. Poi, con il trascorrere degli anni apparirà la debolezza dell’azione di governo del centro destra e la impossibilità di corrispondere alle speranze di cambiamento che si erano orientate verso le coalizioni guidate da Silvio Berlusconi.
Vorrei tuttavia soffermarmi oggi su un episodio avvenuto al momento del primo successo di Forza Italia. Un episodio cha ha due protagonisti, Silvio Berlusconi e Giorgio Napolitano. I due torneranno a incontrarsi e confrontarsi nel corso degli anni successivi anche in momenti di particolare difficoltà vissuti dal Paese.
Giorgio Napolitano comprese in quella primavera del 1994 che occorreva affrontare diversamente da quanto si sosteneva nel mondo dei progressisti la sfida che veniva dalla destra. Fu questo il senso del suo intervento alla camera all’atto della costituzione del primo governo Berlusconi. L’intervento non era stato previsto dal gruppo parlamentare dei progressisti. Uno stupido sgarbo. Fu Giorgio a dirmi, incontrandoci alla Camera, che si sarebbe iscritto a parlare a prescindere dalle burocratiche decisioni del gruppo. E così fece. La presidenza del gruppo si guardò bene dall’informare i deputati progressisti che avrebbe preso la parola Napolitano. Il successo di quel breve discorso passato alla storia delle cronache parlamentari, non superò i dieci minuti, più che dal tono pacato, in un’aula in cui tanti interventi a sinistra si risolvevano in grida d’allarme per il fascismo alle porte, dipese dal tentativo che Giorgio fece di indicare una linea di confronto non distruttivo tra maggioranza e opposizione. Un confronto che si imperniasse su “l’esercizio misurato e responsabile del principio maggioritario” da una parte e sul “massimo impegno di capacità critica e propositiva dall’altra”. Berlusconi incoraggiato da Giuliano Ferrara, ministro “Per i rapporti con il Parlamento” che era al suo fianco, colse il significato politico di quel discorso, lasciò i banchi del governo e si avvicinò a Napolitano per congratularsi e stringergli la mano. Non era mai accaduto. Napolitano con il suo intervento invitava entrambi gli schieramenti al confronto esplicito sulle soluzioni da dare ai problemi assillanti in cui si dibatteva il Paese, ma in un contesto di civiltà politica e sulla base di un riconoscimento reciproco di legittimità. Poi le cose, in un groviglio di responsabilità, presero un’altra piega. Purtroppo per l’Italia.
Presidente della Fondazione Mezzogiorno Europa. Docente a contratto, insegna Storia dell’Europa all’Università La Sapienza di Roma, dove, Economia dei paesi in via di sviluppo all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, Politica estera dell’Unione europea all’Orientale di Napoli. È stato deputato della Repubblica Italiana per quattro legislature (XII, XIII, XIV, XV) eletto nelle liste Pds, Ds e, infine, Pd. È stato anche Presidente della Commissione “Affari esteri e comunitari” della Camera dei deputati. Sottosegretario di Stato agli Affari Esteri dal 1998 al 2001 nei governi D’Alema I, D’Alema II e Amato II.