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Reddito di cittadinanza, male prima e dopo

Marco Leonardi giovedì 11 Luglio 2024
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di Marco Leonardi

 

Il ministero del Lavoro ha appena pubblicato un rapporto sui risultati del reddito di cittadinanza (RdC) a 6 anni dalla sua introduzione e a 1 anno dalla sua cessazione. Presto saranno pubblicati (e sono stati anticipati dal Foglio qualche settimana fa) i primi risultati delle due nuove misure che hanno sostituito il RdC dall’avvento del governo Meloni: l’assegno di inclusione per le famiglie con carichi familiari e il sostegno formazione lavoro per gli “occupabili” senza carichi familiari. È il momento giusto per fare un bilancio del RdC che è molto più di una politica pubblica perché rappresenta anche una bandiera politica e un modo di intendere il welfare state in Italia.

Il rapporto sul RdC è un documento accurato e si conclude con il suggerimento di aumentare il take up delle misure anti povertà: cioè di mirare meglio gli obiettivi del RdC per raggiungere un maggior numero di poveri. La critica che la misura non ha intercettato i poveri non è interamente condivisibile. La povertà (cosiddetta assoluta) è misurata dall’Istat sui consumi mentre il RdC, come tutte le misure universali e selettive in tutta Europa, è basata sui redditi Isee e quindi su un criterio diverso. È vero che RdC beneficiava molti che non erano poveri assoluti (e di contro non raggiungeva molti poveri), ma questo è inevitabile appunto perché usava un criterio di reddito invece che di consumo. Comunque RdC ha molto ridotto l’incidenza della povertà: i poveri con RdC erano meno poveri. Il punto vero è che la parte di incentivo al lavoro non ha funzionato e questa è la ragione per cui una idea giusta -introdurre finalmente anche in Italia una misura universale contro la povertà- si è trasformata in un fallimento gestionale.

La prima misura contro la povertà fu introdotta nel 2017 dal governo Gentiloni, prima i poveri erano affidati solo ai comuni e alla Caritas. Il merito dei 5 stelle fu di aver messo il reddito di cittadinanza al centro della campagna elettorale del 2018, solo così il tema della lotta alla povertà entrò davvero nella discussione politica: l’Italia era l’unico paese europeo privo di una misura universale fino al 2017. Il fallimento gestionale del RdC si palesò quando i 5 stelle lo intesero come la “fine della povertà” e dal punto di vista pratico strutturarono la misura come erogazione del reddito sulla base di requisiti formali senza aver prima fatto i controlli sul territorio e senza limiti di durata. I problemi di gestione furono già identificati durante il governo giallo-verde ma rimasero sottotraccia durante la pandemia perché faceva premio la necessità di coprire rapidamente una larga fetta di popolazione tanto che il reddito di cittadinanza fu temporaneamente “raddoppiato” con il reddito di emergenza. 

La filosofia di fondo del RdC a 5 stelle era che non serve incentivare l’offerta di lavoro da parte delle persone perché il problema è caso mai che manca del tutto la domanda da parte delle imprese, tanto vale distribuire il reddito di cittadinanza senza neanche pretendere l’attivazione delle persone.

Il governo Meloni fa l’errore ideologico opposto e contrario: rompe l’universalità della misura di welfare e distingue i “veri” poveri meritevoli di aiuto (gli inoccupabili definiti come le famiglie con carichi familiari) da quelli non meritevoli di aiuto (gli occupabili definiti esclusivamente sulla base della composizione familiare). La riforma del 2023 distingue gli inoccupabili che sostanzialmente hanno diritto alla vecchia misura del RdC e gli occupabili che invece non hanno più diritto a niente se non €350 condizionati alla formazione (supporto formazione lavoro, SFL). Solo 30mila persone hanno fatto richiesta di SFL: un fallimento totale a meno che davvero non si creda che le persone che hanno bisogno di aiuto a trovare un lavoro in Italia siano solo 30mila, su 2 milioni di disoccupati e altrettanti lavoratori in nero. Il governo sostiene che dei 134mila che non hanno presentato domanda ben 55mila hanno trovato lavoro. Ma questi numeri non provano nulla perché quelli che lavorano sono sempre esistiti anche sotto il RdC, sono persone che lavorano per poche centinaia di euro al mese e a cui RdC dava un’integrazione al reddito mentre ora non prendono niente.

L’integrazione al reddito è la direzione giusta per il RdC in un paese dove non c’è salario minimo legale e il lavoro povero e illegale imperversa: attraverso il RdC bisogna creare l’incentivo a che i lavoratori dichiarino redditi legali e prendano una integrazione che permetta loro di vivere dignitosamente. Ma il vanto del governo Meloni – aver cancellato RdC senza proteste- è possibile in quanto il fallimento della gestione 5 stelle del reddito di cittadinanza è stato evidente. Ad un esame di maturità, i 5 stelle prenderebbero un voto alto in quanto a radicalità delle idee e coraggio della proposta ma un voto zero in quanto alla gestione di quelle stesse misure. Evitiamo che lo stesso si ripeta su un’altra proposta giusta su cui siamo in ritardo rispetto a tutta Europa, il salario minimo legale.

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